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Curriculum Artistico

PALMARES LETTERARIO

2002 – Prima pubblicazione, in proprio, di un libro (I miei figli di un dio minore).
2004 – 2° classificato al premio “Hanau” sezione prosa. (Il rapido per Roma)
2004 – Presentazione del libro “Cani ed altri racconti” presso la “Famiglia artistica milanese”
2005 – 2° classificato al premio “Hanau” sezione poesia. (Il capitano)
2005 – Segnalato al concorso “Parole e immagini” di Boves (Cn) sez. prosa.(Esprimi un desiderio)
2006 – Invitato alla manifestazione “15 poeti alla ribalta”.
2007 – Invitato alla manifestazione “15 poeti alla ribalta”.
2007 – 2° classificato al premio “Hanau” sezione prosa. (Come ti sei fatta bella)
2007 – Segnalato al premio “Hanau” sezione poesia (Se io fossi)
2007 – Pubblicazione del romanzo “Morte al conservatorio” con l’editore Greco & Greco”.
2008 – 3° classificato al 13° premio internazionale di poesia “Città di Voghera”. (La corsa)
2008 – Segnalato al concorso “Parole e immagini” di Boves (Cn) sez. poesia (Parve)
2008 – Segnalato al concorso “Parole e immagini” di Boves (Cn) sez. fiabe, favole e filastrocche.(Il pifferaio magico)

2008 – Lode con encomio al V° premio “Hanau”
2009 – 1° classificato al 14° premio internazionale di poesia “Città di Voghera” (La montagna)
2009 – 1° classificato al concorso“Parole e immagini”di Boves sez. Fiabe e filastrocche
(L’amore di Filù)
2009 – Segnalato al concorso“Parole e immagini”di Boves sez. narrativa (Un caso lampante)
2009 – 1° classificato al premio “Amici del rifugio” – Milano – sez. narrativa
(Il rapido per Roma)
2010 – 1° classificato al premio “Panta rhei” – Lendinara (Ro) – sez. narrativa
(Canta piccolina)
2010 – 6° classificato al concorso letterario “tutti scrittori” – Somma Lombardo – narrativa
(Storie di pescatori)
2010 – Finalista al premio letterario “Mario Dell’Arco” – Roma – poesia
2010 – 1° classificato al concorso“Parole e immagini”di Boves sez. Fiabe e filastrocche
(Il lago dei cigni)
2010 – Segnalato al concorso“Parole e immagini”di Boves sez. Poesia (Caldo)
2011 – Finalista al premio “Giallo d’arte” (Delitto perfetto)
2011 – Pubblicazione del romanzo “Morte e trasgressione” con l’editore Greco & Greco”.
2011 – 3° classificato al concorso“Parole e immagini”di Boves sez. narrativa (Joshua Levy)

2011 – finalista al premio”Giallomilanese 2011″ (Inseguita)

2011- 3° classificato al concorso “Io racconto” – Firenze (Un caso lampante)

2012- Finalista al premio “Tramate con noi” della RAI (Romanzo “Lupi in Valtellina” – inedito)

2012- segnalazione di merito al 2° premio “Amici del rifugio” (Le cose che uniscono)

2012 – segalazione con menzione speciale al premio “Nati per vincere”

2013 – finalista al premio “zucca spirito noir” con due racconti inseriti nell’antologia edita da “Salani” insieme ai due vincitori e a Maurizio De Giovanni

2013 – finalista al premio “Le storie della via francigena” organizzato da Del Bucchia editore con una poesia inserita nella omonima antologia

2013 – Terzo classificato al premio “Ame Erotique” col racconto “la bella signora”

2014 – Classificato entro i primi sei al contest “Giallomilanese” col racconto “Un caso lampante”

2015 – Recital di racconti e poesie presso il centro polifunzionale EMMAUS di Milano

 

I miei Sforzi artistici


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LIBRI IN STAND BY
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 … E ALTRI ANCORA:
– LUPI IN VALTELLINA (USCITA PREVISTA IN AUTUNNO – EDITRICE LE MEZZELANE)
– MORTE A BORDO
– MORTE IN COLLEGIO
– DAL PASSATO
– LA CREPA NEL BUIO
– LA CASA DEI SEGRETI
– MORTE DI UN PRESIDE
– UN INVESTIGATORE MOLTO PARTICOLARE
– VILLA DELLE TURPITUDINI
– LA FILASTROCCA DEI TRE GATTI
– GRIECO E IL GATTO SCOMPARSO
– 2170 A.D.
– GIUSTIZIA PER UN BAMBINO
Alcuni dei miei preziosi trofei

 

In totale, al momento, 4 pubblicazioni con autore (la quinta in autunno); 4 volumi sulla scuola, un romanzo, 20 sillogi di racconti delle quali una di racconti di pesca.

 
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Pubblicato da su luglio 28, 2011 in Uncategorized

 

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Presentazione: Marco Ernst

Salve,

Per chi ancora non mi conosce, devo dire che insegno matematica nella scuola media (e scienze), ma scrivo per hobby racconti, poesie, romanzi.

Qui c’è solo una parte dei miei quasi 650 racconti e più di 100 poesie scritti fino ad ora. (oltre a 15 romanzi di cui due pubblicati con editore e due in proprio)

Chi fosse interessato ai miei libri, parlo delle sillogi di racconti, li può richiedere a me direttamente, se è di Milano, visto che li stampo in proprio e tento di recuperare le spese.

Per la consegna, ci si incontra da qualche parte, oppure posso spedire ai non milanesi.

Bene, spero che qualcuno abbia letto qui alcuni  dei miei racconti. Spero anche  che a qualcuno di quei qualcuno siano piaciuti; ne ho scritti come detto ben più di mezzo migliaio, raccolti in oltre venti di sillogi, stampate a mie spese, che cerco di recuperare, ma oramai ho accumulato un passivo che mi fa chiedere se è giusto che io investa ancora in questo hobby.

I gialli pubblicati, invece, sono stampati con editore e sono morte al conservatorio, fuori catalogo, esaurito, mentre di morte e trasgressione, pure fuori catalogo, ne ho ancora poche copie io. Qui ci sono le copertine di questi e di quelli che giacciono in attesa di essere apprezzati da un editore.

In proprio ho stampato L’uomo nero, favola horror e Morte a bordo, ambientato a Sestri Levante.

Da ultimo devo dire che ho ottenuto sei primi posti in concorsi letterari, oltre una decina di piazzamenti e numerose menzioni e ingressi in finale.

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copertina

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MAR.E. Edizioni

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ELENCO LIBRI MIEI

 

  1. I miei figli di un dio minore             – sett. 02 – Pag. 130 – T. 100 – € 6
  2. I miei figli di un dio minore Vol. II   – nov. 02 – Pag. 140 – T. 100 –  € 6
  3. Cani ed altri racconti brevi              –  ott.  03 – Pag. 120 – T.   70 –  € 6,5
  4. Straordinari personaggi comuni      – giu.  04 – Pag. 170 –  T.   70 – € 7,5
  5. Vite di carta                                     – mar. 05 –  Pag. 210 –  T.   72 – € 8,5
  6. Vita di scuola, scuola di vita           –  ott.  05  – Pag. 166  – T.   70 – € 7
  7. Nuvole, sogni, angeli e farfalle        – mag.06  – Pag. 196  – T.  60 –€ 8
  8. Adulti domani                                  – Set.  06  – Pag. 164  – T.   60 –€ 7
  9. Cento… e più                                   – Mag 07 – Pag. 209  – T.   60 – €8,5
  10. Il re del lago dei frati                       – Giu  07 –  Pag.   70  – T.   72  € 5,5
  11. Vivere è un dolce dolore                 – Nov. 07 –   Pag. 212  – T.  50  € 10
  12. Settima silloge                                – Set. 08  –  Pag. 216 –  T.   52 – €10
  13. Aristotele, la tragedia e la catarsi     -Ott. 09  –  Pag. 211 – T.   48 – €10
  14. Vite… ed altre catastrofi                     Ott.10  –  Pag. 216 –  T.   50 – €  9
  15. Io, apolide                                       –  Lug.11 –  Pag. 222 –  T.   60 – € 10
  16. Il Titanic e l’arca                             –  Sett.11 –  Pag. 224 –  T.   60  –€ 10
  17. Ordine dal caos                                – Apr.12 –  Pag. 226 –  T.   52  –€ 10
  18. Emozioni di sintesi                          –  Ott.  12 – Pag. 224 –  T.   50  –€ 10
  19. A volte… il dolore                            – Giu. 13 – Pag. 220 –  T.  50  – € 10
  20. Ultimi sogni prima dell’alba      – Apr. 14 – Pag   222 –  T.  50 – €  10
  21. L‘uomo nero                                       – Giu. 14 –  pag. 134 –  T.  60 – €   9
  22. Storie, semplicemente                   – Nov. 14 – pag.  230 – T.  50 – €  10
  23. C’ero una volta                                   -Ott   15    pag. 230  – T.  50 – €  11
  24. Lui quarantanove, io cinquecento-Feb  16    Pag. 240 -T. 40- €  11
  25. Un nuovo viaggio                             – Apr 17 –  pag. 250   – T.  52 – € 12
  26. Morte al conservatorio – Greco & Greco – mar. 07 -P. 126  € 6 (offerta)
  27.  Morte e trasgressione  –  Greco & Greco – 2011 disponibile presso l’editore e librerie on line
  28.  Spirito noir collection II (in antologia) – Salani – 2014
  29. 19 racconti del terrore-L’infernale ediz-Mar 17 Pag 180

Se qualcuno fosse interessato ai miei libri, sovvenzionerebbe la cultura; sinceramente non credo di aver nulla da invidiare neppure a Lucarelli, a Buzzati e a tanti altri.

Se vi interessano anche solo informazioni sui modesti costi dei miei libri e su come averli, lasciate un n° di telefono o un indirizzo e-mail nei commenti oppure nel mio profilo FaceBook.

Alcuni numeri: questo blog ha avuto, al 31 dicembre 2016, oltre 110000 contatti da oltre120 nazioni diverse,( compreso il Vaticano!, ma anche Gibuti, Vietnam, Guatemala, Sud Africa ecc).

Ho pubblicato anche fiabe su tiraccontouna fiaba, dove ho avuto oltre 140000 visite (tutto documentabile).

Ho pubblicato con editore e senza contributo due gialli, morte al conservatorio, morte e trasgressione e due miei racconti gialli sono su una raccolta edita da Salani, assieme ad altri autori, fra cui il noto Maurizio De Giovanni.

Partecipo a premi letterari e ne ho vinti 5, più una decina piazzamenti fra il secondo e il terzo, oltre a numetrose segnalazioni e ingressi in finale.

Con affetto

Marco

p.s. per saperne di più leggere anche “curriculum artistico”

 
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Pubblicato da su marzo 11, 2011 in Uncategorized

 

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LEI

LEI

Lei mi ha avuto tardi, per quel tempo.

Lei aveva già due figli nati rispettivamente sette e sei anni prima, forse non mi ha cercato, ma mi ha tenuto, voluto ed amato.

Lei che quando nacqui asfittico, con un’infezione ad un occhio, aveva già capito e previsto tutto, aveva capito con tristezza ed amarezza che la mia vita non sarebbe stata facile.

Ma aveva giurato a se stessa che avrebbe fatto tutto ciò che era umanamente possibile per tenere lontani difficoltà e dolore dal frutto del suo ventre.

Ogni madre è una Madonna, anche se poi non ogni figlio è Gesù.

Lei aveva studiato e poi si era fermata ad un piccolo passo dal diploma, ma per avere intuito e preveggenza non serve un diploma o una laurea: servono buon senso e sentimenti, soprattutto amore.

Lei, lo capii anni più tardi quando la vidi dare quello che poteva, nei limiti del ragionevole, ai suoi nipoti, non figli miei che non avevo e non avrei mai avuto e se io non ero d’accordo, forse perché ero un po’ geloso, mi faceva notare che pochi anni più tardi non avrebbero più avuto modo di giocare, di avere un capo di vestiario da esibire a scuola, ma sarebbero incominciate anche per loro le note dolenti di questo percorso difficile che chiamiamo vita.

Lei lo aveva fatto anche con me: ricordo che quando ero ancora in età prescolare mi regalò un grande orso bianco di peluche con ruote che era costato una cifra che non potevamo permetterci, ma lei sapeva…

Quando ho capito anche io, quando mi sono pentito delle liti, quando ho rimpianto i grazie mai detti, quante volte allora ho pianto: a volte lo faccio ancora, ma con l’età le lacrime si esauriscono. È una sorta di menopausa del dolore e per un fato crudele i vecchi vorrebbero piangere spesso: anche questo lei lo sapeva fin da quando tutto era iniziato.

Lei mi ha visto gettare i miei anni in una vita senza scopo, mi ha tenuto e curato fino a quando se ne è andata, sacrificio ultimo e supremo e forse a volte, di notte, di nascosto, in silenzio, anche lei ha pianto perché vedeva avverarsi quello che aveva capito quando vide per la prima volta quel neonato brutto, fragile e malaticcio, destinato alla sfortuna, perché ce l’aveva scritta in faccia e al dolore e alla solitudine.

Lei mi ha visto per due volte, o forse anche di più, senza darlo a vedere, cercare di andare dietro ad amori impossibili eppure non ha detto nulla, ma anche in quelle occasioni sapeva.

Sapeva che non ero cattivo e forse neppure un genio, ma non uno stupido, ma di certo un ingenuo non adatto a una relazione duratura.

Perché? Perché quel trenta giugno ero piccolo, malaticcio, cianotico e allora era lampante che tutti mi avrebbero fatto del male, mi avrebbero dato illusioni per poi spezzarmi e lei non disse mai nulla, ma poi era lì ad aspettarmi, ad accogliermi in grembo, ad asciugare le mie lacrime, a raccogliere i pezzi lasciati da altri, ad aspettare che tutto si ripetesse di nuovo, ma senza mai farmi la morale, perché il destino è destino e qualsiasi parola detta sarebbe stata sabbia gettata nel vento.

Lei era lì quando morì il mio cane e io la imploravo: “Non darmi questo dolore” e lei rispose piano, quasi in un sussurro, quasi detto a se stessa: “Non darlo tu a me”. Cosa voleva dire? Lo capii molti anni più tardi, troppo tardi: voleva dire che io ero frutto del suo ventre, che si può tagliare il cordone ombelicale, ma questo rimarrà per sempre e comunque come un organo fantasma, voleva dirmi che ogni mio dolore era il suo. Una madre soffre a vedere soffrire.

Lei, che poi, un giorno se ne è andata troppo presto in silenzio, un silenzio urlante di strazio e solo allora ho capito tante cose: l’ho detto che non sono un fulmine di guerra ad elaborare le informazioni? Proprio come un computer vecchio, obsoleto e da buttare. E da allora ho sempre cercato di essere il bravo bambino che lei voleva, di essere degno, di renderla orgogliosa, Ma ho continuato a sbagliare, a sbagliare tutto, proprio tutto. Perché? Perché sono un impulsivo, perché sono nato con un occhio malato e asfittico, o forse perché Dio non sempre è giusto nel distribuire fortune e sfortune. Ma di una cosa lo ringrazio: da avermi dato lei, anche se poi me l’ha crudelmente tolta.

Lei, lei, lei, lei era mia madre.

 
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Pubblicato da su Maggio 1, 2024 in Racconti

 

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MI RACCONTI UNA FIABA?

MI RACCONTI UNA FIABA?

Sono le ventuno, vale a dire le nove di sera, sono qui che metto a letto mio figlio Luca, quattro anni; sua madre ed io volevamo anche dargli una sorellina, ma poi è così difficile mantenerli, allevarli bene, non fargli mancare nulla né di materiale, né in fatto di tempo da dedicare loro…

Lei, Titti, la mia compagna, ma non mia moglie perché anche il matrimonio costa troppo, è di là in cucina che rigoverna: è sfinita dal lavoro fuori e dentro casa, io cerco di aiutarla come posso, ma anche io ho il mio lavoro, precario, malpagato, però lo faccio perché a Luca non deve mancare nulla, pur senza viziarlo. L’ho aiutato a spogliarsi, poi l’ho portato in bagno, gli ho lavato i piedini, i denti che tanto perderà presto, ma è bene che si abitui a curarli fino da ora e adesso è sotto la coperta blu a stelle e razzi che coccola e parla a Bianca, la sua pecorella di peluche, il suo giocattolo preferito.

Faccio per chinarmi a rimboccargli le coperte, a dargli il bacio della buona notte in attesa di quello per lui più importante, quello della mamma, ma lui mi blocca: “Papino, mi racconti una fiaba?”.

Devo dire che mi ha colto alla sprovvista, non me l’aspettavo, non me lo aveva mai chiesto prima: forse a sua madre, ma a me no.

Lì per lì non so che fare, non mi viene in mente nulla, eppure ne sapevo di fiabe e di favole (non ho mai capito bene la differenza, so vagamente che in una ci sono gli animali e nell’altra maghi, fate e quant’altro, ma cosa e in quale?). “Aspetta, amore – gli dico – ora ci penso perché è tanto tempo che non ne leggo e non ne racconto. Qualcosa adesso mi verrà in mente”.

Lui mi guarda in attesa, come a sfidarmi, ad incitarmi: dai che ce la puoi fare! Faccio mente locale, penso alle fiabe classiche, ma in tutte c’è del male, della perversione: possibile scrivere cose simili per bambini? Cappuccetto rosso è un’orgia di sangue, Biancaneve con la bella che convive con sette uomini (superdotati, secondo l’accezione popolare) è quasi oscena. Alì Babà è una storia di gangster e assassini…

No, in tutte c’è troppo male, io sono suo padre e vorrei proteggerlo, fino a che è possibile, da tutto il male, da tutti i mali del mondo.

Ma che avevano in mente i favolisti quando scrivevano queste cose che più che una morale avevano contenuti amorali?

Fingo di pensare alla fiaba per Luca che non protesta, povera stella, ma invece penso a che mondo abbiamo costruito per i bambini se neppure le fiabe sono monde dal male.

Ecco, come sempre quando faccio questi pensieri mi vengono le lacrime agli occhi: fingo di soffiarmi il naso e intanto mi asciugo le lacrime con il fazzoletto, perché non saprei rispondere alle sue domande su di esse.

Beh, in fondo sono un pubblicitario, un creativo, non un grafico e se ci penso potrei creare io una fiaba adatta; mi viene in mente quella che scrissi tanto tempo fa, quella dello gnomo innamorato della farfalla, ma poi lei muore… ecco, ci sono cascato anche io: un amore tragico e poi nascono le tre farfalline  frutto di un amore clandestino per di più fra specie diverse. Si vede che proprio non c’è modo di tenere il male lontano, perché questo è parte integrante della nostra società e delle nostre vite.

Sto per arrendermi, per chiamare Titti in mio soccorso, anche se lei non saprebbe né potrebbe fare nulla di diverso perché le fiabe sono quelle…

Vorrei chiedere scusa a Luca di averlo messo al mondo in questa società piena di brutture, vorrei scusarmi se non so neppure raccontargli una bella storia, ma poi lo guardo:si è addormentato.

Ora posso spegnere la luce e posso finalmente piangere per lui, per ciò che lo aspetta in quella vita che io, che noi, gli abbiamo dato forse con troppa leggerezza.

Lui dorme sereno col pollice in bocca ed io posso andare a piangere da un’altra parte sulla mia incapacità a proteggerlo dal male e dal dolore a venire.

 
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Pubblicato da su marzo 31, 2024 in Racconti

 

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I TRE VIANDANTI

I TRE VIANDANTI

Su una strada di campagna c’erano, allineate, tre cascine, case di campagna, appunto, grandi, silenziose, con annesse le dipendenze per lavoranti che non c’erano più da un tempo immemorabile e magazzini per attrezzi, frutta, granaglie che nessuno più coltivava se non per un limitato uso personale e autonomamente.

In ognuna di quelle case viveva da solo un uomo che campava del proprio lavoro, ma nel suo animo nutriva sogni d’arte e di gloria.

Il primo era uno scultore, il secondo un pittore, il terzo un musicista.

Si chiamavano Marzio, Biagio, Ermete, nomi di una volta, nomi di quelli che si era soliti dare in campagna.

Tutti e tre, dunque, vivevano da soli e di giorno lavoravano duramente la campagna per ricavarne a mala pena di che vivere, mentre la sera, spesso anche la notte, davano sfogo ognuno alla propria vena artistica.

Marzio aveva un fienile oramai stracolmo di sculture, di Veneri, di Madonne, di Pietà scolpite nel marmo che gli costava quasi tutti i suoi guadagni.

Allo stesso modo Biagio aveva le pareti dalla sua casa, tanto vuota quanto grande, ricoperte di quadri appesi uno accanto all’altro senza cornici e senza soluzione di continuità, senza cornici perché quelle non poteva permettersele,  ma anche le tele e i colori erano un costo, un sacrificio non indifferente, però pure lui, come il suo vicino, non aveva altro nella vita che il suo lavoro e la sua arte. D’altra parte il pianoforte, quasi assurdo con la sua forma elegante in un locale rustico di una cascina, era anch’esso costato parecchio e molto costava la carta da musica. I tre uomini, pur essendo artisti e vivendo relativamente vicini, non si frequentavano, non avevano altri rapporti che un formale saluto quando, raramente, si incontravano andando, magari, al mercato e nessuno di loro dava fastidio agli altri.

Data la distanza il picchiare del martello sullo scalpello di Marzio non interferiva con la musica di Ermete e le sinfonie di questo non disturbavano la concentrazione di Biagio il pittore.

E i giorni passavano lenti, ma inesorabili, come passano i giorni in campagna, segnati unicamente dalla luce e dalle stagioni.

E i tre uomini invecchiavano soli e con le proprie aspirazioni irrealizzate.

Poi, un giorno, sulla strada polverosa che passava davanti alle tre cascine, comparvero tre viandanti; erano sporchi di polvere, coperti da sacchi di iuta e cavalcavano tre asini macilenti. I tre si chiamavano Successo, Ricchezza e Amore ed erano stati mandati dall’Entità superiore affinché i tre artisti contadini avessero una chance nella vita. Solo uno di loro, però, poteva entrare in una delle cascine a lasciare il suo dono soprannaturale.

Con molto scetticismo Marzio scelse il successo.

Poi toccò a Biagio che optò per la ricchezza.

A Ermete non rimase che l’amore.

E così i tre viandanti, che forse erano angeli, ma questo non lo sapremo mai, entrarono nelle rispettive cascine e nelle vite dei tre uomini, pronti a cambiargliele quelle vite irrealizzate.

I tre uomini rifocillarono i viandanti dando loro cibo e vino, gli prepararono un giaciglio pulito per la notte e quando questi decisero di ripartire per il loro viaggio, ognuno ebbe una pagnotta casalinga e mezza forma di formaggio, oltre a frutta fresca e vino per il viaggio.  Così questi ripartirono, ma ciò che rappresentavano rimase in dono a chi li aveva accolti.

Un giorno venne da Marzio il sindaco del paese vicino, accompagnato dalle guardie in uniforme e gli commissionò una statua da porre nella piazza principale del paese. Il suo lavoro piacque talmente tanto che moltissima gente cominciò ad arrivare per vedere le sculture che egli serbava nel vecchio fienile e ci furono altre commesse per statue e monumenti. Molti dei visitatori di Marzio passarono, già che c’erano, a vedere i dipinti di Biagio e subito fioccarono anche per lui le richieste; i suoi quadri andavano via come il pane e i soldi entravano a fiumi.

Così pure Biagio ebbe ciò che voleva: fama, ma soprattutto ricchezza.

Certo che quella fiumana di persone aveva sconvolto la pace e la concentrazione degli artisti, aveva cambiato, soprattutto, la loro vita e il loro modo di concepirla e gestirla. Un giorno, mentre un gruppo di visitatori passava per andare a vedere le opere di Marzio e Biagio, una giovane donna sentì le note melodiose e malinconiche composte da Ermete e si fermò da lui per sentirlo suonare: si innamorò così della musica e del musicista e non andò mai più via. Anche Ermete aveva trovato ciò che aveva desiderato: l’amore.  

Ognuno, dunque, grazie ai viandanti e ai loro poteri aveva realizzato i suoi sogni e, in fondo lo meritavano, anche se ciò che avevano chiesto non era poco.  

Successe, però, che un giorno le mode artistiche cambiarono e cambiò la giunta comunale e fu così che il nuovo sindaco fece rimuovere la scultura di Marzio dalla piazza, non fosse altro che per dispetto al suo predecessore di fazione politica opposta e ben presto tutti si dimenticarono di lui e della sua arte e la gloria che aveva avuto per poco tempo tramontò per sempre.

Anche Biagio, dopo tante vendite, aveva inflazionato il mercato e nessuno volle più le sue opere prive oramai di valore economico.  

Nel frattempo, però, lui si era dato alla bella vita e aveva sperperato tutta quell’insperata ricchezza. Così entrambi tornarono al loro grigio lavoro e, visto che il loro momento era passato, abbandonarono anche l’arte che li aveva accompagnati ed esaltati.  

L’amore fra Ermete e la donna che la sua musica aveva conquistato, invece, durò per sempre, o almeno per la durata delle loro vite, perché il vero amore non è una moda e mentre Ermete continuò fino a che poté il suo lavoro di sempre, le loro capigliature imbiancarono insieme, ma i loro cuori rimasero eternamente giovani e colmi d’arte e di sentimento.

Bisognerebbe sempre ricordarsi che i beni materiali sono effimeri e capire che solo l’amore dà un senso alla fuggevolezza della vita e la vera ricchezza e il successo in questo breve passaggio sono l’avere dato e ricevuto questo sentimento.

 
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Pubblicato da su marzo 2, 2024 in Racconti

 

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IMMAGINE

IMMAGINE

Raul e Mauro si erano conosciuti in riva al fiume.

Uno passeggiava, l’altro corricchiava, ma si fermò a riprendere fiato alla sua altezza.

Raul era l’uomo che camminava, un cinquantenne scavato come con un’accetta nella roccia, lineamenti duri, barba lunga e ispida, ma due occhi celesti che parlavano di bontà.

Il corridore già spompato era un ventiduenne studente di geologia che cercava in riva al fiume tracce di non si sa bene cosa.

Si salutarono con un “Salve”, quattro parole e divennero amici inseparabili.

Il sabato o la domenica o entrambe i giorni andavano a fare escursioni in montagna,

Raul aveva una microscopica baita di legno dove spesso dormivano e lui cedeva l’unico letto al ragazzo, accontentandosi di un sacco a pelo.

Ma avevano un luogo in comune preferito, dove un sentiero fra gli alberi si apriva in una piccola radura con sul fondo di questa un precipizio.

A volte si sfidavano: il ragazzo correva ma arrivava alla radura senza fiato, mentre l’uomo affrontava il sentiero a passo da montanaro e arrivava dove lo aspettava l’amico senza neppure una goccia di sudore.

A volte, giunti in cima, si abbracciavano: un abbraccio virile, da uomini, ma con un’amicizia superiore all’amore, all’ammirazione, al desiderio di stare insieme, di essere soli nella natura, di poter cantare, gridare per sentire l’eco rimandata dalle montagne.

Non mancavano un week end, tanto non avevano mogli o  fidanzate ad aspettarli, ma solo una baita di legno con una stufa rovente e cibi in scatola, quelli per gente come loro.

Poi accadde: erano sul loro sentiero, stavolta Mauro era scoppiato prima e Raul era arrivato alla radura, al bordo del precipizio per primo. “Un evento da immortalare” commentò il giovane ansante, “Dai che ti faccio una foto”.

Raul si mise a braccia larghe a toccare gli ultimi due alberi, due faggi, prima del burrone, mentre l’amico lo inquadrava e un attimo dopo nello schermo della fotocamera non c’era più né Raul, né gli alberi: tutto era franato di sotto. I soccorsi poterono solo recuperare il corpo dell’uomo, trenta metri più sotto, nascosto dalle fronde di due faggi sradicati.

Ma Mauro la settimana dopo era là, dove finiva il sentiero e iniziava la radura oramai ridotta a metà e allora lo vide, vide l’amico che lo salutava e gli faceva segno di non muoversi. Mauro fece una foto che mostrò solo una macchia bianca. Tornò la settimana dopo e quella dopo ancora e sempre c’era l’immagine, l’ultima immagine, di Raul fra le piante che gli parlava a gesti che gli faceva capire quanto fosse stato importante per lui.

Raul si accucciava, Mauro si sedeva a terra, poi a sera l’immagine svaniva, fino alla settimana seguente, ma Mauro avrebbe voluto rimanere lì per sempre: Dio, quanto gli mancava quell’uomo, il suo bene silenzioso, il suo sapere montanaro e boscaiolo.

Andò avanti per un anno.

Poi, giusto al primo anniversario della tragedia, a gesti Raul fece capire all’amico che il tempo era scaduto, che la sua immagine non poteva più tornare.

Mauro pianse: non lo faceva dal giorno del funerale.

Non era ancora sera, quando l’immagine tremolò e scomparve per sempre.

Un attimo prima erano lì accucciati, seduti, si mandavano saluti: l’ultimo fu un bacio mandato da lontano dall’immagine di Raul e un attimo dopo erano spariti entrambi: l’immagine soprannaturale e la voglia di vivere di Mauro, ma Raul voleva che l’amico vivesse, che vivesse anche per lui per altre passeggiate e altri sentieri: l’immagine oramai sparita lo avrebbe sorvegliato e protetto comunque da un’altra dimensione.

 
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Pubblicato da su gennaio 31, 2024 in Racconti

 

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QUANTO DURA UN SECONDO

QUANTO DURA UN SECONDO?

Rossano era salito in piedi sul parapetto in cemento del balcone di casa, settimo piano, interno diciannove; il vento lo faceva oscillare, metteva a dura prova il suo labirinto, l’organo dell’equilibrio.

* * *

Che vita era ed era stata la sua? Aveva forse ancora delle prospettive?

Aveva desiderato, come tutti del resto, un po’ di successo, di denaro per avere tranquillità economica, una molecola d’amore, soprattutto, quello che si riceve, perché di quello che si da ne aveva elargito anche troppo. Soddisfazioni poche o nessuna, una cosa che fosse andata per il verso giusto? mai in vita sua e così adesso era solo, ai bordi della povertà e di uno strapiombo di sette piani, senza lavoro, senza amore, dimenticato da tutti.

* * *

Non avrebbe mai dovuto farlo: da sempre soffriva di vertigini e volente o nolente da quella posizione sarebbe presto precipitato comunque ma, come si dice: cosa fatta capo ha.

Rossano guardò in basso e il “là sotto” gli apparve enormemente lontano, tutto era piccolo, come in un plastico ferroviario in cui mancava solo un dettaglio: lui. Ma quanto sarebbe durato il suo ultimo viaggio, quel volo che in aereo non aveva mai fatto perché temeva le altezze? Ricordò dal liceo quella formula: accelerazione uguale spazio fratto tempo al quadrato e, come aveva supposto Galileo, che pure non conosceva le forze di attrito, la massa non entrava nell’equazione: allora quanto ci avrebbe messo il suo corpo ad arrivare sulla strada? Di certo raggruppato o in piedi meno del tempo che ci avrebbe nesso se si fosse “sdraiato” nell’aria.

Sapeva che l’accelerazione di gravità era di circa novevirgolaotto metri al secondo quadrato, a livello del mare, ma la sua città, quella sporca, fredda e cattiva, a volte crudele, quella là sotto, era a livello del mare?

E quanto sono alti sette piani? Provò a considerare circa tre metri e mezzo a piano, visto che il suo era una palazzo datato e con soffitti alti; poi c’era lo spessore delle solette… valutò fra i venticinque e i trenta metri, il che valeva a dire, in termini di tempo… 

Valeva a dire che si era perso nel ragionamento: non era la situazione ideale per risolvere un problema di fisica, seppure da prima liceo e poi era fuori allenamento da quanto? Tanti, troppi anni e uno non sale su un cornicione con carta, penna e calcolatrice.

Di certo poteva e doveva essere più di un secondo, considerando l’attrito: forse due o tre di secondi, ma quanto dura un secondo?  Qualcuno potrebbe dire che dura… un secondo, ma quanto dura in termine di pensieri, parole, azioni? Una durata che trascende la misurazione del tempo in base alla rotazione terrestre.

Con una pericolosa oscillazione riuscì ad infilare una mano nella tasca dei pantaloni e trovò quello che cercava, una moneta da un centesimo, un resto della spesa: le metteva sempre lì libere, nelle tasche, le monetine “rosse”, poi le perdeva quando a sera si sfilava i calzoni prima di andare a letto.

La lasciò cadere di sotto e provò a contare: uno… eh no! Così è sbagliato: si comincia a contare dopo che il secondo è passato, qui è la fregatura della misurazione empirica, ma senza strumenti adatti e poi non poteva contare e pensare nello stesso tempo. 

Intanto, mentre contava e ragionava e litigava con le proprie misere conoscenze scientifiche, la minuscola moneta sparì alla sua vista: non l’aveva vista atterrare, né tantomeno l’aveva sentita colpire il marciapiedi: esperimento fallito caro il mio fisico mancato! Il suo orologio da polso, cinque euro al mercato tre anni prima, ma che potevano essere trenta o trecento (gli anni, non gli euro), aveva in effetti un cronometro, ma lui non era nella posizione ideale per muovere troppo le braccia e per fare prove di cronometraggio e poi, come detto, sarebbe stato necessario che un’altra persona calcolasse  il tempo mentre lui pensava e solo così avrebbe avuto la percezione di quanto dura un secondo, ogni secondo, in termini di cosa si può fare e pensare in quel lasso di tempo che, seppur piccolo, non è istantaneo.

Sotto, in strada, nel frattempo qualcuno lo aveva notato, lo aveva indicato ad altri e un piccolo capannello di curiosi si era fermato col naso all’insù.

Qualcuno aveva telefonato al numero di emergenza che collega con forze dell’ordine, ambulanza, vigili del fuoco. Altri filmavano col cellulare l’imminente caduta da postare, poi, sui social: sai che colpo! Migliaia di visualizzazioni e di “like”.

Sentiva in lontananza le persone gridare, gridare qualcosa a lui; alcuni erano insulti al suo stato mentale, qualcuno lo implorava di scendere, qualcun altro, perfino, gridava: “Salta!”: erano quelli del cellulare e dei like

Quello adesso era il suo pubblico, erano tutti lì, o meglio, là, laggiù per lui; dopo una vita intera adesso, finalmente, qualcuno si accorgeva della sua esistenza.  Ma che importanza poteva avere oramai? L’unico risultato di quell’assembramento di curiosi assetati della sua morte era stato distrarlo dai suoi pensieri, dai suoi calcoli fisico – matematici su quanto durasse il salto e sulla durata di un secondo.

Riuscì ad estraniarsi dalla sua platea, almeno al momento, mentre da lontano arrivava un suono di sirene. In quel secondo, o due, o tre, nell’ipotesi peggiore, avrebbe potuto pensare a un milione di cose, vedere il selciato avvicinarsi veloce eppure troppo lento per non soffrire, per non percepire la propria morte. Ma troppo veloce per ripensarci.

Di colpo fu colto da una  paura folle, non tanto quella di morire, che era la sua opzione numero uno, quanto di accorgersi di farlo: sbandò, oscillò e di sotto qualcuno gridò di orrore. Un poliziotto fra i primi arrivati fece allontanare la piccola folla fino al marciapiedi opposto: meglio, da là la visione era ottimale e le riprese pure.

I vigili del fuoco stavano discutendo se un telone sarebbe stato efficace con una caduta da quell’altezza: quanta sarebbe stata la forza con la quale il pazzo del settimo piano sarebbe arrivato alla protezione?

Forza uguale massa per accelerazione… Ancora fisica elementare, signori.

No, caro Newton, alla fine Rossano aveva sancito che un secondo dura troppo, due ancora di più e tre sono insostenibili: non era quello il modo e allora saltò dal parapetto, saltò giù, ma verso l’interno: scendere semplicemente sarebbe stata una manovra pericolosa senza un appoggio.

Pensandoci e ripensandoci bene forse avrebbe trovato un altro modo più rapido e indolore.

Oppure, malgrado tutto, avrebbe deciso di continuare a vivere: un’altra serie di quei lunghissimi secondi di cui ancora non aveva stabilito la durata.

 
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Pubblicato da su dicembre 31, 2023 in Racconti

 

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IL CENCIOSO

IL CENCIOSO

Lo chiamavano così, il cencioso, in qualunque paese arrivasse.

Era detto così perché indossava sempre e solo una specie di saio ruvido e sporco fatto di iuta di sacchi..

E questo appellativo era dato solo dai più gentili: altri lo chiamavano l’appestato, per via delle piaghe e delle pustole che portava sulle mani e sui piedi fasciati da pezze di stoffa oramai consunte e incapaci di fermare il sanguinamento delle piante ferite dai sassi incontrati nel suo lungo camminare per i paesi..

Il resto del corpo, come detto, non si vedeva perché era coperto da una sorta di saio di iuta grezza completo di cappuccio, forse fatto di vecchi sacchi da farina rubati nei fienili o fra la roba da gettare via, perché il cencioso non era un ladro.

Lui, infatti, vagava per piccoli paesi rurali, restava pochi giorni, faceva ciò che andava fatto, poi spariva.

Tutti lo evitavano per paura di malattie, ma lui non avvicinava nessuno, non chiedeva né denaro, né pane e beveva alla fontana con e come le mucche.

Si sedeva, magari, a riposare in un angolo fuori dalla chiesa oppure, se c’era un dottore, nei pressi del suo ambulatorio.

Già, l’appestato… ma non era lui quello ad avere malattie anche innominabili.

Quanti anni aveva? Difficile a dirsi non vedendone il volto e neppure il corpo che però, di certo era magro e un po’ curvo per il lungo peregrinare.

Quaranta? Oppure settanta o cento?

Si appoggiava su un bastone al quale era avviticchiato un altro ramo più piccolo: roba fatta a mano, ma di certo antica.

Come vivesse, visto che non mendicava era un mistero: probabilmente campava grazie a piccoli prelievi di frutti caduti dagli alberi, negli orti o nei frutteti.

Nessuno, però, aveva il coraggio di scacciarlo: un po’ perché aveva il bastone, i segni delle malattie e quindi faceva paura e ribrezzo, un po’ perché di fatto non molestava nessuno né commetteva reati veri e propri.

E poi aveva quel dono…

In altri tempi si sarebbe detto un pellegrino o forse un eremita, ma quelli non vanno in giro: si fermano a meditare in una grotta o sotto un grosso albero o magari sopra una vecchia colonna.

Lui, il cencioso, di cui nessuno conosceva il vero nome e neppure lui se lo ricordava, aveva scoperto di essere quello che era all’età di otto anni.

Nel paese (quale?) da dove veniva c’era un suo coetaneo con una brutta voglia pelosa sul volto che ne deturpava l’aspetto.

Un giorno lui, bambino, toccò con un dito la voglia e quella scomparve, mentre a lui si formò un taglio alla piegatura di una nocca, taglio che non guarì mai più.

Egli intimò all’altro bambino il silenzio, dicendo, magari, che era stata l’acqua santa con cui si era bagnato in chiesa, ma figuriamoci se un bambino riesce a tenere un segreto: quelli manco la pipì trattengono.

Così il piccolo guaritore fu tacciato di essere posseduto dal demonio, fu spogliato, legato e gettato in un barile di acqua ghiacciata.

Lo ripescarono che era quasi assiderato, gli diedero dei sacchi ruvidi al posto dei suoi vestiti che vennero subito bruciati e lo scacciarono dal paese.

Per fortuna non era più tempo di caccia alle streghe o altrimenti sarebbe finito sul rogo.

Rinnegato anche dalla propria famiglia, cominciò a girare di pese in paese e, da bambino buono qual era, si divertiva a curare chiunque avesse piaghe, ferite o altre malattie, pur sapendo che ognuna l’avrebbe pagata con una piaga, un taglio, una pustola sul proprio corpo.

Un giorno, visto che la cosa non era passata inosservata, lo trascinarono a forza, dopo averlo legato pur di non toccare le sue numerose infezioni, nella casupola si un moribondo di tubercolosi ed egli lo baciò sulle labbra e quello subito si riebbe, mentre al piccolo cencioso rimase un labbro leporino, aperto.

Il bimbo crebbe e crebbero anche il numero dei suoi miracolati e delle piaghe che gli venivano in cambio delle guarigioni, ma a lui andava bene così: c’è una soddisfazione impagabile nel fare del bene, anche se sai che poi lo pagherai di persona.

Allora attendeva fuori dallo studio i pazienti del medico, li toccava e questi guarivano, mentre lui si piagava non senza dolori indicibili. Il suo corpo era ormai un’unica piaga fatta da tutte le malattie curate.

In alcuni paesi le donne si segnavano al vederlo quasi fosse davvero il demonio.

Altri gli sputavano addosso, mentre qualche anima pietosa, soprattutto fra i parenti dei guariti, a volte gli portava una brocca d’acqua pulita o avanzi di carne e frutta fresca che lui con difficoltà afferrava con le mani piagate e sanguinanti.

Poi venne la pestilenza.

Ne fu colpito un solo paese, perché subito questo fu isolato dai soldati con barricate e trincee e a qualcuno venne l’idea di andare a cercare il cencioso.

Non lo amavano, ne provavano disgusto, ma lui aveva il dono, quel dono.

Lo afferrarono con delle corde lanciate da cavallo e lo trascinarono così oltre le barricate, ferendone ancor più il povero corpo, strappando il suo saio rappezzato.

Nel pese gli abitanti, quelli ancora vivi, erano statti riuniti nella chiesa dove il tanfo di malattia e morte era insopportabile.

Lo accolse solo il prete, un sant’uomo, che lo rifocillò e preparò per lui vesti nuove scelte fra gli scarti di sacrestia.

E il cencioso passò fra le file di morenti e li baciò tutti e subito questi guarivano mentre lui emetteva gemiti di dolore.

C’erano anche dei bambini oramai deceduti, ma egli baciò anche loro e questi tornarono a vivere.

Alla fine il cencioso cadde sfinito dal dolore e allora il prete lo spogliò del saio intriso di pus, sangue e pestilenza per rivestirlo con quanto preparatogli.

Ma anch’egli, osservando il corpo magro piagato, ferito, grondante liquidi infetti ebbe un moto di ribrezzo e di pietà.

“Santo Iddio, –  gli domandò il sant’uomo e dopo si segnò con la croce per aver nominato invano il nome di Nostro Signore – ma quanti mali hai guarito? Quanti sei in grado di guarirne?”.

“Tutti, tutti i mali del mondo: posso sopportarli proprio tutti” rispose il cencioso parlando a fatica per le piaghe sul volto eppure con estrema dolcezza..

Ma forse un giorno, però, queste ferite e piaghe e pustole diverranno troppe anche per lui e allora ne morirà, ma quel giorno Dio lo accoglierà fra i suoi angeli più belli ed eleganti nel loro camice azzurro, ma lui lo vorrà anche così, vestito di cenci.

 
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Pubblicato da su dicembre 1, 2023 in Racconti

 

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GABRIELA

GABRIELA

Chissà perché in quella sera nebbiosa, umida, fredda, a Gabriele erano saltati addosso quel magone, quella nostalgia, quei ricordi, quei rimpianti.

È una cosa che succede spesso a tutti i vecchi, ma lui non era vecchio: era a metà strada fra i trentacinque e i quaranta: vale a dire fra la piena maturità e l’inizio del decadimento.

Era dunque una sera così, di paturnie, di rabbia, nostalgia, malinconia, tristezza.

E di voglia di piangere: sì, anche quella.

Cosa ne è, ad un certo punto, della vita che avevi sognato e progettato fin da bambino? È vero, i bambini a volte sognano in grande; chiedi loro cosa vorrebbero fare da adulti e loro ti rispondono: il calciatore, il pompiere, il supereroe, la ballerina, la principessa. Una volta il nipotino adorato da Gabriele alla stessa domanda aveva risposto: “da grande voglio fare il bambino”. Quel giorno lo aveva adorato come non mai per quella risposta che lo aveva commosso fio alle lacrime: non lo vedeva da anni, adesso era grande, adesso non voleva e non poteva più comunque fare il bambino.

La vita, pensava mentre camminava avanti e indietro, è fatta così, di frasi di persone che entrano ed escono dalla nostra vita, che facendolo la cambiano. Gli capitava di pensare a lei, alla vita come una pallina che segue il flebile corso e l’impercettibile solco lasciato da una penna a sfera, una linea sottile perfettamente retta, ma basta qualche minuscola briciola posta sulla traccia e la pallina allora devia e poi ancora e ancora: ecco, le persone che incontriamo sono le nostre briciole, anche se l’incrocio – incontro è breve, la traiettoria cambia irrimediabilmente, a volte in meglio, altre in peggio, ma questo noi non lo sapremo mai perché la via rettilinea è perduta irrimediabilmente. Tanto, poi, tutte le strade convergono nello stesso punto, la fine della linea che può essere lunga o breve, ma mai infinita.

Ecco, quella sera lo aveva assalito il ricordo di Gabriela.

In realtà si chiamava Gabriella, ma l’ufficiale dell’anagrafe aveva sbagliato a scrivere il nome e l’aveva scritto così, in po’ alla sudamericana e così era rimasto. Gabriela era una bambina di un anno più piccola di lui: Gabriele e Gabriella, o Gabriela: comunque forse un segno del destino.

I suoi ricordi arrivavano ai nove anni, più indietro è troppo difficile; se lui ne aveva nove, allora Gabriela ne aveva otto e lui se ne innamorò, ma ben più di quanto dovrebbe essere capace un bambino della sua età.

Anche se con quel nome che ricordava le Ande, oppure il carnevale, quello vero, quello di Rio, Gabriela era invece bionda – oro, con la carnagione bianchissima, la pelle liscia e a lui piaceva accarezzarle il bracco candido e sentire quella seta rabbrividire sotto il suo tocco. Ogni giorno, dopo la scuola, la bambina saliva da lui, oppure era lui a scendere a casa sua; giocavano, ridevano, parlavano delle mille cose misteriose delle quali solo il bambini parlano. A volte mettevano un disco lento sul piatto del giradischi e ballavano come avevano visto fare dai grandi, stretti, stretti.

Una volta Gabriele spense la luce per ballare al buio, ma intervenne la sorella della sua amica, che era grande, che aveva già diciotto anni e di certo sapeva cose che loro ancora ignoravano e aveva acceso la luce e spento la musica, minacciando di dire tutto ai genitori di entrambi. E loro non capivano il perché quella cosa così bella era stata scambiata invece per una brutta.

Un altro giorno erano soli in casa, cosa rara, ma erano tempi in cui le famiglie a volte lo facevano di lasciare i bambini soli, del resto loro due non erano tipi da giocare coi fiammiferi e dare fuoco alla casa.

Si sedettero al tavolo, fianco a fianco a guardare un libro con illustrazioni di posti bellissimi dove avrebbero voluto entrambi volare, se fossero state due farfalle. Gabriela rideva: “Che sciocco: le farfalle sono femmine e noi non siamo due femmine…” e rideva e lui l’amava.

Quel giorno la bambina portava una gonna corta e larga e calzettoni bianchi al ginocchio e Gabriele poteva vedere l retro delle sue cosce bianche al disopra dei calzettoni e si chiese come sarebbe stato vedere oltre.

Allora domandò a Gabriela di alzarsi, le sollevò la gonna e stette a guardare incantato oltre le ginocchia. E Gabriela rideva. E allora lui le abbassò anche le mutandine candide e la osservò davanti e dietro e sentiva qualcosa di strano accenderglisi dentro e salire a imporporargli il volto e Gabriela rideva, ma non gli chiese di mostrarsi anche lui. La cosa non si ripeté più e fu l’unica volta di quel gioco particolare di cui nessuno seppe mai nulla.

Poi, due anni più tardi, la famiglia della bambina cambiò casa, città e lui non la rivide mai più e loro furono separati per sempre.

Quanto piansero entrambi! ma le famiglie dicevano: “Sonno bambini dimenticano in fretta, poi passa…”.

A Gabriele no, non passò. La sera nel suo letto piangeva in silenzio, pensava alla pelle bianca di Gabriela, alle sue cosce, a quella volta che la vide nuda, o quasi.

Gli anni passarono, ma Gabriele non si innamorò mai più di nessuna altra ragazzina. Gli capitò, invece, di invaghirsi di un compagno di scuola.

Lo aveva visto in palestra, era il più piccolo della classe e altri compagni per gioco gli avevano abbassato i boxer: non era ancora sviluppato, ma le sue cosce, le sue natiche bianche e implumi gli ricordarono quelle di Gabriela.

Lui si scagliò come una furia in difesa del compagno, che per altro non se l’era presa per lo scherzo e si scatenò una rissa: non finì bene, la cosa si concluse con un occhio nero e una sospensione. Di certo Gabriele non avrebbe mai rivelato al compagno di essersi invaghito di lui.

Passarono altri anni, vennero altri compagni che lui scoprì di amare e da qualcuno fu anche ricambiato.

Era stata forse Gabriela la sua briciola sulla linea retta del destino?

Quando sentiva quella voglia frenetica di stringere un uomo, di farsi amare come una donna, allora Gabriele cambiava il proprio aspetto, il proprio modo di vestire, indossava una minigonna aderente e tacchi alti.

Scelse come nome d’arte proprio Gabriela ora era lui la femmina da desiderare, da amare.

A volte dimenticava perfino come tutto era nato, di quel travolgente amore infantile. Altre volte gli sembrava di no ricordare bene se lui stesso fosse Gabriele o Gabriela. Ma quella sera umida e nebbiosa gli era tornato tutto alla mente: forse se lei non avesse cambiato casa, se non fosse partita, come sarebbero andate le cose?

Gabriela, briciolina mia…

Gabriele – Gabriela era immerso in questi pensieri mentre, pieno di freddo, aspettava il prossimo cliente, rabbrividendo e con quel maledetto perizoma che gli dava fastidio fra le natiche e gli tirava i peli.

 
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Pubblicato da su ottobre 31, 2023 in Racconti

 

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IL DIVANO

IL DIVANO

Mattia e Christian si erano conosciuti a scuola: uno professore, l’altro alunno quattordicenne.

Non avevano mai parlato nel poco tempo della supplenza de precario Mattia.

Si rividero, anzi si risentirono nove anni dopo.

Matteo era in vacanza e inaspettatamente ricevette una telefonata da Christian, al quale aveva lasciato il numero di telefono così come a tutta la sua classe e come faceva con tutte le classi che lasciava per sempre.

Il giovane gli disse che aveva un problema con la sua ragazza, oramai ex ragazza e aveva pensato a lui perché “Era una persona adulta ed anche di cuore”.

Parlarono a lungo, si promisero di incontrarsi presto, magari per una pizza: passarono invece altri tre anni.

E poi ne passarono ancora altri tre prima che Christian si facesse vivo in risposta a un post sui social dove Mattia, oramai in pensione, diceva di volerla fare finita.

Aspetta, non ti muovere – gli disse il ragazzino oramai ventottenne – mi faccio prestare una macchina e fra mezz’ora sono da te”.

Mattia lo tranquillizzò.

Un mese dopo andarono insieme a fare una breve gita, la loro prima, sul fiume e lì ognuno si aprì all’altro, rivelandogli i propri segreti più… segreti.

Era nata un’amicizia vera.

Poi, almeno per Mattia, l’amicizia si trasformò in una forma di amore cerebrale, senza la passione dei sensi, ma solo quella irrefrenabile voglia di assorbire l’anima dell’altro e di esserne assorbito, anche se Christian nel frattempo aveva un’altra ragazza.

Si rividero ancora; Mattia regalò all’amico un monopattino elettrico affinché potesse andare a trovarlo senza dipendere dal trasporto pubblico lento e strapieno.

Poi Christian, studente di medicina, ebbe una crisi e Mattia gli stette vicino e gli propose di studiare insieme. Si vedevano così ogni giorno e poi, quando il più giovane prese il virus del momento e nessuno lo voleva in casa, fu Mattia ad accoglierlo e ad essere contagiato, ma fu un periodo bellissimo in cui il reciproco sentimento, seppur diverso nell’intensità, andò aumentando.

Certo, vivendo così tanto insieme a volte litigavano, ma il tutto durava tre minuti, poi si abbracciavano entrambi con gli occhi lucidi.

Venne infine l’estate: con entusiasmo Christian accettò l’invito di Mattia per fare venti giorni insieme in campagna a due passi dal mare. Al mattino studiavano e il pomeriggio mare.

Una domenica, giorno in cui la spiaggià era tabù per troppa gente e nessun parcheggio, avevano deciso di vedere la formula uno in televisione, ma sbagliarono oraro e quando accesero l’apparecchio la gara era già finita.

Optarono allora per una visita alla villa di Puccini, ma più tardi, con meno caldo.

Christian si sdraiò sul divano e si addormentò.

Mattia prese una sedia impagliata che gli segnava le cosce seminude e si sedette dietro di lui ad aspettare.

Dopo circa un’ora Christian si svegliò di soprassalto e rovesciò in modo quasi buffo la testa all’indietro per vedere se c’era l’amico: “Ah, sei qui?” “E dove vuoi che vada senza di te: non ti lascio, lo sai” fu i botta e risposta.

Era già successo a casa di Mattia che, mentre il giovane ripeteva ciò che aveva studiato, l’amico lo avvertisse che andava a fare pipì, ma di continuare pure che lo sentiva: “No, preferisco aspettarti” fu allora la risposta e Mattia si sentì commosso da questa.

Passarono alcuni anni; Christian si laureò, cominciò a lavorare e si prese come assistente Mattia che scriveva le ricette al computer, prendeva appuntamenti, lo accompagnava nelle visite e il tutto senza volere un soldo.

Ma poi Mattia non ce la fece più: non riusciva neppure a fare le scale e due volte alla settimana Christian gli portava la spesa ma si sentivano, comunque, per telefono, tutti i giorni.

Infine la biologia fece il suo corso.

A Christian tornò la vecchia depressione, si separò dalla compagna che non aveva mai sposato, rimase solo, pur con gli amici, ma quello speciale, quello invece gli mancava un casino.

Una domenica peggiore di taanti altri giorni, Christian si sdraiò sul divano e si addormentò.

Sognò un bosco fatato in cui trovavano, lui e il vecchio amico, una penna d’istrice, sognò tuffi fra le onde e pizze in vari luoghi, poi un sogno triste e indefinibile lo svegliò di colpo.

Come tanti anni prima girò la testa, ma stavolta era solo.

Allora scoppiò a piangere come non aveva fatto neppure al funerale di Mattia.

Poi girò la testa una seconda volta e vide su una sedia impagliata che lui non possedeva e seduta su questa una figuara diafana, trasparente, che gli sorrideva e lo salutava con la mano alzata: non era solo, non lo era mai stato, qualcuno vegliava su di lui.

Allora, fra lelacrime, anch’egli sorrise.

 
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Pubblicato da su ottobre 1, 2023 in Racconti

 

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PAZZI ERAVAMO

PAZZI, ERAVAMO

Quanti anni potevamo avere quando tutto cominciò?

Sarei tentato di dire quindici, ma in realtà eravamo un bel po’ più adulti, almeno anagraficamente, soprattutto io, ma non eravamo certo adulti di cervello o, perlomeno, quel poco che ne possedevamo si era dissolto nello stesso istante in cui c’eravamo incontrati e quello ci riportò all’età della beata incoscienza.

Pazzi, dunque, eravamo due pazzi scatenati. Due quindicenni  chiusi in corpi adulti.

Dove e quando ci incontrammo la prima volta?

Boh? E chi se lo ricorda, ma almeno io ricordo che fu una cosa come quella dei film: all’improvviso tutto d’intorno sparì, si sfocò ed io vedevo solo lei e lei solo me, almeno così mi giurò che avvenne anche per lei.

Lei, Stefania.

Ci stringemmo la mano e subito entrambi ci sentimmo felici.

Lei era più piccola di me, intendo di età, ma anche di altezza.

Io avevo la patente e un’auto tutta mia, un catorcio con buchi di ruggine ovunque, eppure era la mia, era la nostra libertà e indipendenza.

Andavamo in giro, così senza meta: niente cinema, né altri locali, perché i pochi soldi che guadagnavo col mio primo lavoro saltuario andavano tutti in benzina e riparazioni, ma la macchina almeno ci consentiva di fuggire via dal mondo degli “altri”.

Un giorno uscimmo dalla città, girovagammo un poco senza neppure sapere dove eravamo, ma era facile ritrovare poi la strada per la città grazie ai cartelli indicatori, ma non c’erano cartelli che indicavano la via per la felicità e la follia, così quella ce le cercavamo da soli.

Al ritorno passammo davanti a un campo di granturco con piante alte due metri, di certo ben più di noi; davanti a questo c’era il grattacielo di una delle prime aziende di software ed elettronica.

Fermati!” Gridò Stefania. Lo feci, posteggiai accanto al campo di mais anche se un po’ scostato, lontano dalla vista di chi passava e di chi lavorava là dentro.  Soprattutto se ci fossimo addentrati fra le folte piante saremmo stati del tutto invisibili, anche dai piani più alti della costruzione di acciaio e cristallo e infatti lei si addentrò fra i filari e io la seguii senza chiedere nulla.

Quando fummo ben dentro trovammo uno spiazzo fra gli steli e lei si sedette a terra tirandomi a sé, poi si levò la maglietta: sotto non portava nulla.

Quindi si sfilò i jeans e quella fu la nostra prima volta, lì, sfidando il mondo.

E le volte successive non fu mai solo sesso, ma sempre un’altra sfida, il brivido di essere sorpresi, la paura che rialzava a mille l’adrenalina.

Che fossimo pazzi e innamorati era solo una cosa nostra, non lo raccontavamo certo, tantomeno vantandocene, agli amici e alle amiche.

Giunse il caldo di giugno e lei volle andare al fiume: conoscevo un posto sull’Adda, in quel periodo in stato di magra.

Lì, sul letto asciutto e sassoso, mi chiese di insegnarle a guidare: gridava, gridava dalla felicità della novità. Poi, costeggiando un filare di alberi, investì un piccolo stormo di passeri novelli e ne uccise due: passò all’improvviso dal riso al pianto e non volle più guidare.

Lasciammo allora la macchina e arrivammo a piedi in riva all’acqua bassa, tolti i pantaloni restammo in costume da bagno e ci addentrammo camminando fino a metà fiume, poi tornammo a riva; io aprii il lettino da mare che avevo portato e ci sdraiammo insieme a prendere il sole.

Eravamo soli, lei si tolse il reggiseno del bikini e si coricò accanto a me a pancia sotto. A sera saremmo stati rossi e bollenti come gamberi.

Quando ci stancammo del sole ci avviammo a piedi fra i cespugli e qui, come era stato fra il grano, lei si spogliò completamente, si sdraiò a terra e mi tirò a sé. Passarono delle persone a non più di un metro da noi, ma eravamo ben nascosti, protetti dai cespugli e non ci potevano vedere.

Fummo felici come non mai e anche quella volta ci amammo come non mai.

Forse qualcuno intuì qualcosa delle nostre innocenti follie, dei brividi, delle emozioni: eravamo troppo felici e scoperti; credo che perlomeno la sorella di Stefania, grazie al maledetto intuito femminile, capì qualcosa.

Un giorno che i genitori di lei erano partiti per lavoro lasciando sole le figlie, al momento di andarmene dopo aver guardato la televisione, senza in realtà vederla, stretti insieme sul divano, Lucia, sua sorella, appunto, mi disse: “Scendo con te: devo andare a comperare una cosa”.

“Passiamo di qui” mi disse in ascensore, premendo il tasto del sottopiano. Poi mi trascinò in cantina, si sfilò la minigonna sotto cui non portava nulla e mi mise le braccia al collo e la lingua in bocca.

Anche se ero eccitato, con gentilezza la allontanai da me: non era giusto.

Lei non ci provò una seconda volta; non so se la sua fosse stata una avance o un test.

Poi, forse, qualcosa cambiò nel rapporto con Stefania: avevamo provato un po’ di tutto ciò che è lecito, stavamo pericolosamente deviando verso la noia borghese.

Non saprei dire quanto era durato il nostro periodo di follia e di amore travolgente: fu immensamente lungo e dolorosamente breve.

Un giorno, quando oramai lei si era trasferita in pianta stabile a casa mia, rientrai e la chiamai, diedi fondo a tutti i nomignoli che le avevo dato, ad altri nuovi, poi passai agli insulti: non c’era lei e non c’era neppure più nulla della sua roba.

Anche la traccia del suo profumo era sparita.

Lei, che era più fuori di testa di me, aveva fatto l’ultima follia, se ne era andata.

Forse anche stavolta aveva avuto ragione lei: presto, molto presto, il nostro sarebbe diventato un amore troppo normale, avremmo smesso di divertirci, saremmo rinsaviti e morti dentro allo stesso istante.

Forse saremmo finiti a dire un sì in chiesa, vestiti io come un pinguino e lei come una bambina alla prima comunione e poi ci saremmo forse circondati di marmocchi e pannolini puzzolenti.

No, quello non era per noi.

Lei aveva dunque preferito così, andarsene quando tutto era ancora bello, quando ancora riuscivamo ad essere pazzi e vogliosi di sfidare tutto e tutti.

Uccidere l’amore quando questo era ancora ben vivo, piuttosto che farlo morire lentamente e dolorosamente.

Una inevitabile eutanasia.

Non ci sarebbero state più guide, campi di mais, greti sassosi e assolati, niente di niente, mai più.

Non so lei, ma io pazzo stavolta lo divenni davvero, ma non più per amore, bensì di dolore.

 
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Pubblicato da su agosto 5, 2023 in Racconti

 

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panspermia

PANSPERMIA

PANSPERMIA  (LUCCICANZE)

Lui, l’uomo senza nome, si svegliò, come da un sonno privo di sogni, senza sapere assolutamente chi fosse, da dove venisse, perché si trovasse in quel luogo che non conosceva.

Anzi, più che svegliarsi fu proiettato nella vita di quel mondo.

Si accorse che era nudo, ma non c’era alcun altro essere vivente nei dintorni a vederlo: la cosa, comunque, lo metteva a disagio, non sapeva perché, visto  che il concetto di nudità e pudore esulava dalle sua poche conoscenze di quel momento. Poco distante c’era una albero con foglie enormi e frutti simili a grossi baccelli, allora ne strappò alcune di quelle foglie e le intrecciò fra loro perforandone la pagina di una col picciolo di un’altra; proseguì fino a formarne una alta cintura sufficiente a cingergli la vita e coprire ciò che andava coperto: così andava meglio.

Meglio, ma non ancora bene, il senso di disagio non lo lasciava, era comunque nudo in quanto lui solo, a quanto pareva, era esposto al giudizio di quel mondo che non conosceva, ma che forse sapeva invece tutto di lui.

Ora l’uomo aveva anch’egli bisogno la stessa cosa, sapere tutto di sé, avere delle risposte alle domande postesi appena risvegliato da quella specie di sonno che non ricordava di avere mai iniziato.

Ma che cosa è sonno? Non lo sapeva, ma era un concetto e una domanda che gli erano balenati all’improvviso. Più che concetti, infatti, aveva istinti: sonno, fame, sete, vergogna, paura, freddo. Gli istinti di tutti gli animali, ma che cosa è animali? Dei viventi, ma che cosa è viventi, cosa è vita? Forse camminare, forse sentire fame e sete, avere domande, cercare risposte.

Sembrava proprio che egli fosse comunque l’unico essere vivente a vagare per quel mondo inesplorato, selvaggio.

Gli esseri a cui aveva strappato le foglie per coprirsi non sembravano infatti  provare i suoi stessi stimoli. Se non altro non c’era il pericolo di essere attaccato da qualcosa di potenzialmente pericoloso: no paura.

Ma il suo nome? Almeno quello avrebbe dovuto e voluto saperlo, però sapeva cosa era un nome: lui aveva un nome e le piante un altro nome, le cose, anche loro, quelle che non si muovevano, quelle dure, al suolo, inanimate, senza fame, è sete o altro, altri nomi anch’esse.

Ma nulla: il suo nome o cosa lui fosse non era fra le sue scarse conoscenze: possibile che non ne avesse uno? Provò perfino a cercare di inventarselo, ma niente, non conosceva nomi, non sapeva crearsene uno.

Uomo, lui era solo uomo, ecco arrivava fino a qui ed era già qualcosa, ma dopo basta. Ora uomo provava un nuovo istinto: stanco. Smise di camminare senza meta e si fermò. Fame, mangiare. Frutti del primo albero non buoni, aveva deciso. Altro essere fermo con foglie piccole non adatte per vestire e frutti gialli e rossi, quello buono, gli diceva l’istinto.

Mangiò fino a che qualcosa dentro lui diceva basta.

Sete, bere. Quella cosa che si muoveva dentro il cavo delle foglie se le agitavi e che da poco era venuta giù dal cielo e dava freddo, forse era buona per altro istinto. Bevve.

Stanco, adesso era stanco, ma non di camminare, bensì di pensare, capire, cercare. Si sdraiò a terra, si coprì con cose verdi piccole e grandi cadute dagli  esseri immobili. Dormì. Si svegliò, ancora fame e sete, poi qualcosa lo costrinse ad accucciarsi fra i cespugli senza la sua cintura verde. Ora stava meglio; riprese ad esplorare perché era così: capiva che doveva farlo, che tutto l’equilibrio di quel luogo dipendeva da lui. Camminò fino a che quella cosa calda in alto non scomparve e lui non poté più vedere. Allora si fermò: di nuovo dormire, fame, sete, mangiare bere, accucciarsi, camminare, poi ancora dormire, seguire il ciclo della cosa che dava caldo e faceva vedere dove andare. Poi le cose grandi e ferme con cose verdi appese e cose per fame piano, piano scomparvero e tutto divenne un’altra cosa bassa e verde che andava giù, si allontanava dell’alto, quindi era… basso?

Era solo da tre cicli di luce – buio, caldo – freddo (aveva capito di segnare ogni ciclo con un dito delle sue mani) e si rendeva conto di avere già avuto delle risposte ad alcune delle sue domande, di avere imparato cose che o non sapeva prima o aveva dimenticate quando era finito il primo sonno, quello che non aveva avuto un addormentamento.

Era abbastanza contento di sapere cosa era buono e cosa cattivo da mangiare, da incontrare, cosa poteva fargli male, come cose alte ma con spine (istinto dolore) e cosa no.

Adesso aveva anche meno paura.

Solo, pensò, se ora cose contro la fame finte, cosa mangerò?

Ritornò sui propri passi, legò fra loro rami e foglie e fece un fagotto rudimentale, lo riempì di cose da mangiare, poi prese altri grandi frutti duri  da esseri grandi, li svuotò e li riempì di quella cosa da bere che scorreva a terra. Tornò alla pianura felice di avere risolto, almeno per il momento, il problema di fame, sete, mangiare, bere.

Quando la cosa in alto gli permetteva di vedere il cammino, allora era anche caldo, ma poi quando doveva fermarsi perché non vedeva più, aveva freddo e si sdraiava e si ricopriva ma adesso non c’erano più foglie, quindi era difficile farlo, allora tolse la sua cintura e si coprì alla meglio con quella. Non era una bella sensazone, però aveva capito che se la cosa in alto andava via, lui non vedeva più, ma poi quella tornava e allora vedeva e si scaldava.

Aveva imparato che c’erano cose che anche se non toccava o non introduceva nel suo corpo, gli davano gioia, come quegli esseri piccoli, simili a quelli grandi, ma molto più piccoli, con colore diverso e che mandavano al suo naso una strana sensazione: aveva imparato che esistevano i fiori e il loro profumo. Alcune delle sue cose da mangiare, invece, avevano cambiato colore e mandavano una sensazione sgradevole al naso: li gettò via.

Se erano cattivi da sentire, da vedere, allora dovevano esserlo anche da mangiare.

Di nuovo luce, buio, mangiare, bere, camminare.

Adesso anche dove metteva i piedi non era più cosa fresca colore della sua cintura, ma piccole cose di colore meno bello e non c’erano più esseri buoni per il naso, solo quella cosa morbida, ma instabile dentro cui i piedi affondavano un poco.

E in fondo vide un’altra distesa blu, come quella da bere – sete, ma più grande: come era bella! Sentiva che a quella visione dagli occhi scendevano gocce come quelle da bere, ma con sapore più marcato: stava piangendo per la prima volta e intanto in alto al posto di quella cosa che scalda c’era un’altra simile, ma con meno luce e più fredda, ma la si poteva guardare senza fastidio e anche quella era bella e allora di nuovo pianse. E a quella debole luce le sue lacrime luccicarono e caddero a terra e formarono una piccola pozza e scorrevano, si avvicinavano, si aggregavano. E dentro la pozza qualcosa si muoveva, stava nascendo la vita, le prime molecole organiche. E allora l’uomo si addormentò e non si svegliò più, ma piccoli esseri uscirono dalla pozza e si diressero al mare, dove si aggregarono, si diversificarono, divennero più grandi.

Qualcuno aveva portato e creato la vita su quel pianeta, lui, il primo uomo o forse il primo Dio.

 
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Pubblicato da su luglio 3, 2023 in Racconti

 

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