PANSPERMIA
PANSPERMIA (LUCCICANZE)
Lui, l’uomo senza nome, si svegliò, come da un sonno privo di sogni, senza sapere assolutamente chi fosse, da dove venisse, perché si trovasse in quel luogo che non conosceva.
Anzi, più che svegliarsi fu proiettato nella vita di quel mondo.
Si accorse che era nudo, ma non c’era alcun altro essere vivente nei dintorni a vederlo: la cosa, comunque, lo metteva a disagio, non sapeva perché, visto che il concetto di nudità e pudore esulava dalle sua poche conoscenze di quel momento. Poco distante c’era una albero con foglie enormi e frutti simili a grossi baccelli, allora ne strappò alcune di quelle foglie e le intrecciò fra loro perforandone la pagina di una col picciolo di un’altra; proseguì fino a formarne una alta cintura sufficiente a cingergli la vita e coprire ciò che andava coperto: così andava meglio.
Meglio, ma non ancora bene, il senso di disagio non lo lasciava, era comunque nudo in quanto lui solo, a quanto pareva, era esposto al giudizio di quel mondo che non conosceva, ma che forse sapeva invece tutto di lui.
Ora l’uomo aveva anch’egli bisogno la stessa cosa, sapere tutto di sé, avere delle risposte alle domande postesi appena risvegliato da quella specie di sonno che non ricordava di avere mai iniziato.
Ma che cosa è sonno? Non lo sapeva, ma era un concetto e una domanda che gli erano balenati all’improvviso. Più che concetti, infatti, aveva istinti: sonno, fame, sete, vergogna, paura, freddo. Gli istinti di tutti gli animali, ma che cosa è animali? Dei viventi, ma che cosa è viventi, cosa è vita? Forse camminare, forse sentire fame e sete, avere domande, cercare risposte.
Sembrava proprio che egli fosse comunque l’unico essere vivente a vagare per quel mondo inesplorato, selvaggio.
Gli esseri a cui aveva strappato le foglie per coprirsi non sembravano infatti provare i suoi stessi stimoli. Se non altro non c’era il pericolo di essere attaccato da qualcosa di potenzialmente pericoloso: no paura.
Ma il suo nome? Almeno quello avrebbe dovuto e voluto saperlo, però sapeva cosa era un nome: lui aveva un nome e le piante un altro nome, le cose, anche loro, quelle che non si muovevano, quelle dure, al suolo, inanimate, senza fame, è sete o altro, altri nomi anch’esse.
Ma nulla: il suo nome o cosa lui fosse non era fra le sue scarse conoscenze: possibile che non ne avesse uno? Provò perfino a cercare di inventarselo, ma niente, non conosceva nomi, non sapeva crearsene uno.
Uomo, lui era solo uomo, ecco arrivava fino a qui ed era già qualcosa, ma dopo basta. Ora uomo provava un nuovo istinto: stanco. Smise di camminare senza meta e si fermò. Fame, mangiare. Frutti del primo albero non buoni, aveva deciso. Altro essere fermo con foglie piccole non adatte per vestire e frutti gialli e rossi, quello buono, gli diceva l’istinto.
Mangiò fino a che qualcosa dentro lui diceva basta.
Sete, bere. Quella cosa che si muoveva dentro il cavo delle foglie se le agitavi e che da poco era venuta giù dal cielo e dava freddo, forse era buona per altro istinto. Bevve.
Stanco, adesso era stanco, ma non di camminare, bensì di pensare, capire, cercare. Si sdraiò a terra, si coprì con cose verdi piccole e grandi cadute dagli esseri immobili. Dormì. Si svegliò, ancora fame e sete, poi qualcosa lo costrinse ad accucciarsi fra i cespugli senza la sua cintura verde. Ora stava meglio; riprese ad esplorare perché era così: capiva che doveva farlo, che tutto l’equilibrio di quel luogo dipendeva da lui. Camminò fino a che quella cosa calda in alto non scomparve e lui non poté più vedere. Allora si fermò: di nuovo dormire, fame, sete, mangiare bere, accucciarsi, camminare, poi ancora dormire, seguire il ciclo della cosa che dava caldo e faceva vedere dove andare. Poi le cose grandi e ferme con cose verdi appese e cose per fame piano, piano scomparvero e tutto divenne un’altra cosa bassa e verde che andava giù, si allontanava dell’alto, quindi era… basso?
Era solo da tre cicli di luce – buio, caldo – freddo (aveva capito di segnare ogni ciclo con un dito delle sue mani) e si rendeva conto di avere già avuto delle risposte ad alcune delle sue domande, di avere imparato cose che o non sapeva prima o aveva dimenticate quando era finito il primo sonno, quello che non aveva avuto un addormentamento.
Era abbastanza contento di sapere cosa era buono e cosa cattivo da mangiare, da incontrare, cosa poteva fargli male, come cose alte ma con spine (istinto dolore) e cosa no.
Adesso aveva anche meno paura.
Solo, pensò, se ora cose contro la fame finte, cosa mangerò?
Ritornò sui propri passi, legò fra loro rami e foglie e fece un fagotto rudimentale, lo riempì di cose da mangiare, poi prese altri grandi frutti duri da esseri grandi, li svuotò e li riempì di quella cosa da bere che scorreva a terra. Tornò alla pianura felice di avere risolto, almeno per il momento, il problema di fame, sete, mangiare, bere.
Quando la cosa in alto gli permetteva di vedere il cammino, allora era anche caldo, ma poi quando doveva fermarsi perché non vedeva più, aveva freddo e si sdraiava e si ricopriva ma adesso non c’erano più foglie, quindi era difficile farlo, allora tolse la sua cintura e si coprì alla meglio con quella. Non era una bella sensazone, però aveva capito che se la cosa in alto andava via, lui non vedeva più, ma poi quella tornava e allora vedeva e si scaldava.
Aveva imparato che c’erano cose che anche se non toccava o non introduceva nel suo corpo, gli davano gioia, come quegli esseri piccoli, simili a quelli grandi, ma molto più piccoli, con colore diverso e che mandavano al suo naso una strana sensazione: aveva imparato che esistevano i fiori e il loro profumo. Alcune delle sue cose da mangiare, invece, avevano cambiato colore e mandavano una sensazione sgradevole al naso: li gettò via.
Se erano cattivi da sentire, da vedere, allora dovevano esserlo anche da mangiare.
Di nuovo luce, buio, mangiare, bere, camminare.
Adesso anche dove metteva i piedi non era più cosa fresca colore della sua cintura, ma piccole cose di colore meno bello e non c’erano più esseri buoni per il naso, solo quella cosa morbida, ma instabile dentro cui i piedi affondavano un poco.
E in fondo vide un’altra distesa blu, come quella da bere – sete, ma più grande: come era bella! Sentiva che a quella visione dagli occhi scendevano gocce come quelle da bere, ma con sapore più marcato: stava piangendo per la prima volta e intanto in alto al posto di quella cosa che scalda c’era un’altra simile, ma con meno luce e più fredda, ma la si poteva guardare senza fastidio e anche quella era bella e allora di nuovo pianse. E a quella debole luce le sue lacrime luccicarono e caddero a terra e formarono una piccola pozza e scorrevano, si avvicinavano, si aggregavano. E dentro la pozza qualcosa si muoveva, stava nascendo la vita, le prime molecole organiche. E allora l’uomo si addormentò e non si svegliò più, ma piccoli esseri uscirono dalla pozza e si diressero al mare, dove si aggregarono, si diversificarono, divennero più grandi.
Qualcuno aveva portato e creato la vita su quel pianeta, lui, il primo uomo o forse il primo Dio.