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Archivio mensile:ottobre 2020

LA STANZA

LA STANZA

La famiglia Vietti era, o era stata, una famiglia felice, anche se il termine può apparire esagerato. Allora diciamo… serena, unita, tranquilla?

Marta, la madre e moglie faceva la… madre e la moglie, ma faceva anche piccoli lavori di sartoria in casa, costantemente piegata sulla sua macchina per cucire: probabilmente da vecchia la sua schiena ne avrebbe risentito, ma adesso era ancora una donna giovane e attiva, di poco oltre i quaranta.

Franco, il padre era un uomo affascinante: alto, robusto senza essere in sovrappeso, capelli, occhi e baffi neri, un paio d’anni più della moglie, che per un uomo significano essere nel pieno vigore; anch’egli lavorava da casa facendo traduzioni letterarie, a volte di manuali, altre di documenti: aveva una laurea in lingue straniere, Inglese e Tedesco.

E poi c’erano i due figli, due, il numero ideale, entrambi maschi: Germano e Michelangelo, diciassette anni il primo, undici il secondo.

In quella famiglia, nonostante l’imponenza e il fascinoso carisma di Franco, nessuno comandava, non c’era bisogno: tutti sapevano cosa fare e quando e le decisioni venivano prese insieme.

Un’utopia, ce ne fossero di famiglie così!

Poi…

Poi Germano se ne andò, non da casa, ma dalla vita: in due mesi una straziante e fulminante malattia del sangue se lo era portato via.

Santo Dio! Era il primogenito, quello su cui Franco aveva riposto tutte le sue speranze per un futuro luminoso. Bello, bravo a scuola, una promessa del canottaggio, simpatico a tutti ed estroverso, pronto a prendere il mondo in mano ed invece…

I mali più carogna non guardano in faccia a nessuno. O forse lo fanno, perché non colpiscono mai i disonesti, gli speculatori, i seminatori di odio, bensì le brave persone, quelle che lasciano un vuoto incolmabile.

Ci fu un bel funerale, sempre che i funerali possano essere belli, con tanta gente  e tantissimi fiori e poi per molti dei presenti tutto finì con una lastra di marmo incastrata davanti a un colombario.

Per la sua famiglia, invece, non era la fine del dolore, ma solo l’inizio.

I tre superstiti erano tornati a casa, una casa che improvvisamente pareva diventata enorme; appena entrati madre e figlio minore, oramai l’unico figlio, si abbracciarono singhiozzando, ma papà Franco no: lui non aveva versato una sola lacrima né durante la malattia, né dopo l’ultimo respiro di quella cosa che oramai non era più il figlio bello e atletico che aveva generato e neppure durante il funerale.

Marta e Michi si accasciarono sul divano, incapaci di muoversi; Franco salì al piano superiore, aprì la porta della stanza di Gabriele e rimase lì, sulla porta, senza entrare, senza fare nulla, a guardare il letto, l’armadio, i poster, il computer, la racchetta da tennis, il remo appeso alla parete, tutte le cose che adesso erano anch’esse morte.

Vi rimase per un tempo indefinito, forse ore. Ad un tratto si accorse che accanto a lui c’era Michelangelo e che voleva entrare a toccare, carezzare, profanare le cose del fratello.

Franco alzò una mano per colpirlo, lui che non aveva mai masso un dito addosso ai figli, ma non lo fece.

Ciò che fece male al bambino fu lo sguardo del padre, uno sguardo che pareva dirgli: “Tu non esisti, dovevi essere tu ad andartene, non lui” o almeno così Gabriele interpretò l’occhiata del genitore. Il bambino scappò via in lacrime.

Come risvegliato da quell’episodio Franco chiuse la porta e scese in cucina; rovesciò sulla credenza il cassetto di mezzo, quello dell’ ” un po’ di tutto” e sbatté il contenuto all’aria fino a che non trovò la chiave della stanza di Gabriele.

In quella casa non c’erano chiavi alle porte, non ce n’era bisogno. Poi risalì e chiuse la porta a doppia mandata ed era chiaro il messaggio al resto della famiglia: che nessuno osi entrare. La chiave scivolò nella tasca dei suoi pantaloni e lì rimase. 

Dal giorno del funerale la famiglia Vietti smise: Franco smise di lavorare e di rispondere alle chiamate di lavoro al telefono.

Marta smise di cucire, di cucinare, di pulire casa e Michelangelo smise di andare a scuola. Anche alle chiamate del dirigente scolastico nessuno rispose mai, ma sapendo della tragedia che li aveva colpiti questi non segnalò alle autorità la violazione dell’obbligo scolastico.

Marta ordinava la spesa on line, tutta roba pronta da mangiare senza cucinare, pagava con ciò che avevano in banca, ma che si andava assottigliando rapidamente, visto che c’erano state anche le spese del funerale.

Morire costa caro e non solo in lacrime.

Franco scese a dormire sul divano, ma dormire era una parola grossa, perché Marta lo sentiva passeggiare per casa quasi tutta la notte e poi la mattina sovente lo trovava lì, in piedi, a fissare la porta chiusa della stanza del figlio che non aveva più.

Ma soprattutto padre, madre e figlio smisero di parlare e di parlarsi, forse anche di amare e amarsi, quasi che i suoni e i sentimenti disturbassero il loro dolore e il dolore non è un frastuono, ma un assordante silenzio.

Parevano tre zombi: giravano per casa e si incrociavano senza dirsi nulla, senza sfiorarsi, senza vedersi e il più invisibile era il piccolo Michelangelo che soffriva la mancanza del fratello, della madre e soprattutto del padre: non che l’uomo lo odiasse, semplicemente era diventato invisibile per lui. Franco era invecchiato di dieci anni, capelli in disordine, barba lunga e ingrigita. Probabilmente non sarebbero durati ancora molto senza lavorare, parlare, mangiare, vivere, amare.

E Franco passava ore davanti alla porta chiusa a chiave della stanza.

Nessuno dall’esterno osava disturbarli, nessuno sapeva, tutti volevano solo rispettare il loro dolore, perché ognuno lo vive a modo proprio.

C’è un percorso che può essere più o meno lungo, diverso per tutti, ma prima o poi l’istinto di sopravvivenza prevale e si torna a vivere, ma il dolore di una perdita non si supera, non si supera mai. Magari si accetta, alla fine, si cerca di conviverci per puro istinto di sopravvivenza..

Spesso Franco dopo aver passato notti insonni davanti alla stanza del figlio che non aveva più si addormentava in pieno giorno sul divano; Marta allora si sedeva sulla poltrona davanti a lui a guardarlo muta a constatare come fosse invecchiato di anni in poco tempo e Michi allora, in silenzio, saliva di sopra e si metteva a fare la guardia alla stanza al posto del padre.

Fu così che Franco lo trovò un giorno, come un soldato di sentinella ad allora lo afferrò, tremante, lo strinse e finalmente lo bagnò di lacrime e sentendo i singhiozzi arrivò anche Marta e tutti e tre piansero abbracciati

Ecco, la fase più dura era forse passata, forse adesso sarebbero tornati a vivere e non essere invisibili gli uni agli altri, forse il loro strazio sarebbe stato mascherato da ognuno per non fare del male agli altri, a chi non lo meritava. Certi dolori lasciano cicatrici che non passano mai, ma alla fine si può accettare di tirare avanti pur con la loro presenza.

La stanza di Gabriele, però rimase chiusa e fossilizzata così com’era.

Forse lo è ancora adesso.

 
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Pubblicato da su ottobre 18, 2020 in Uncategorized

 

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LA FESTA DEI MORTI

LA FESTA DEI MORTI

Il due di novembre per tutti è la commemorazione dei defunti; per me, per tutta la durata delle scuole elementari era la festa dei morti, un po’ come in Messico, dove la tale giorno è detto, appunto, “la fiesta de los muertos”, quando i bambini festeggiano con pupazzi e dolciumi a forma di scheletro: un modo come un altro per esorcizzare una cosa triste come la morte.

* * *

Avevo promesso che prima o poi lo avrei raccontato: avevo una zia, sorella maggiore di mia mamma, anzi la maggiore dei cinque figli dei miei nonni, che era dotata di grande senso pratico, solo che lo voleva imporre a tutti.

Per il resto era una donna dal cuore d’oro, talmente attaccata e dedita alla famiglia, da essere la depositaria di ricordi che ora, mancata lei, sono andati perduti.

Lei conosceva tutta la nostra genealogia, parenti vicini e lontani, anche oltralpe e oltre oceano, non se ne perdeva uno e non ne trascurava alcuno, perché era la sua e nostra famiglia ed era la sola che teneva i rapporti con tutti. Riuscì persino, quando suo figlio si ammalò gravemente a rintracciarne il padre naturale in Sud America senza conoscerne l’indirizzo e neppure la città dove viveva. Ora che non c’è più, molti contatti si sono persi, magari senza troppi rimpianti: parenti lontani che a loro volta non si sono mai interessati molto di noi, ma per la zia Mirta erano comunque parenti e lei faceva di tutto per non perdere i contatti coi vivi ed anche coi morti.

Così, per molti anni, il due di novembre lei arrivava la mattina presto da Bergamo, in treno, io mi facevo trovare pronto, lavato, stirato e nutrito e si partiva alla ventura per Pavia, dove c’era e soprattutto c’era stata una colonia di parenti di cui ora è difficile stabilire la genealogia. Penso fossero tutti dalla parte di mio nonno materno, di sicuro lo era lo zio Gigi, ma ne parlerò fra poco. Si partiva, dunque, in treno; non ricordo francamente se ci si muniva di panini e bevande, ma conoscendo mia zia penso di sì; di certo lei arrivava con un enorme mazzo di crisantemi da distribuire su tutte le tombe che riusciva a rintracciare (di qualcuna, fortunatamente, non ricordava più l’ubicazione) e la prima tappa era il cimitero di Pavia, appunto.

Perché parlo di festa dei morti? Perché i bambini non concepiscono ancora la morte nella sua drammaticità, nel suo dolore e per me non era il triste pellegrinaggio della memoria quello, bensì una novità, una gita, in un tempo in cui per i bambini non c’erano tutti i divertimenti di ora quella era un’occasione per fare qualcosa di diverso, di avventuroso, almeno nella mia immaginazione, qualcosa che poi per giorni avrei raccontato agli amici e ai compagni di scuola, che poi erano la stessa cosa, magari romanzando un po’ la giornata e del resto sono poi diventato, seppur per hobby, scrittore.

Giravamo per quel cimitero che a me pareva immenso: ho già avuto modo di dire come da piccolo io amavo i cimiteri e i funerali, tanto che a tre anni mi facevo portare da mia mamma al Monumentale di Milano, perché volevo giocare in quel “bel giardino”.

Chissà se le anime dei morti si sono mai sentite disturbate o se il correre di un frugoletto treenne, l’arrampicarsi di questi sulle tombe ha ridato loro un poco di vita?

Ma torniamo alla spedizione del due novembre con la zia; dopo che mi aveva fatto su ogni tomba una genealogia e un romanzo su ogni residente del loculo del momento, che mi aveva raccontato della famiglia del nonno Paolo, del fratello di questi spedito in America con una famosa attrice perché monello (questa non l’ho mai capita e approfondita), iniziava una ricerca dei vivi. In realtà l’unica parente pavese ancora al mondo, al tempo, era la zia Becchina, vedova dello zio Gigi: perché la chiamasse così, Becchina, lo ignoro; forse per la forma del naso, forse… non lo so proprio.

Quella era la parte meno bella della gita: quella casa piena di cose vecchie che odoravano di vecchio mi metteva a disagio; la padrona di casa ci offriva sempre un tè con biscotti, ma io rifiutavo adducendo una scusa qualunque: per me le tazze da tè erano quelle dello zio morto e mi faceva impressione bervi dentro: fisime da bambini, ma la zia Becchina intuiva la cosa e ci rimaneva male.

Finalmente uscivamo da quella casa che m’impressionava più delle tombe, quasi una casa stregata, una casa dei fantasmi ed allora si partiva per Montebello della Battaglia.

Per arrivarci, visto che non c’era stazione ferroviaria, occorreva prendere un treno fino a Voghera e poi un pullman, oppure ci voleva la faccia tosta della zia Mirta che chiedeva passaggi alle macchine, non col pollice, ma avvicinandosi e domandando: “Scusi, va mica verso Montebello”?

Chi negherebbe un passaggio a una matura signora e ad un bambino?

Neppure gente che non andava in quella direzione, ma che faceva una deviazione umanitaria apposta per noi: penso che nel viaggio lei raccontasse all’autista malcapitato buona parte del nostro albero genealogico.

A Montebello c’era la casa di una zia di mia zia, sorella di mia nonna, quindi prozia… o mi sono perso? Lì feci anche un lungo soggiorno quando la mamma fu operata di ernia, ma questa è ancora un’altra, ennesima storia.

Laddove ci sono parenti vivi, non possono mancare quelli defunti, così ci toccava anche in cimitero locale, molto più piccolo di quello di Pavia, più intimo, più raccolto, più paesano, meno tetro.

Dopo l’intensa giornata, finalmente, si poteva tornare a casa: era stato bello, emozionante, ma dopo una giornata così si era sfiniti.


Ricordo che un anno prendemmo un treno che ci portò sì a Milano, ma alla stazione di Porta Vittoria, che non sapevamo assolutamente dove fosse e come fare per arrivare a casa da lì; oltretutto era novembre e faceva buio preso e il buio fa perdere ancora più l’orientamento.

Ma se sono qui a scrivere vuole dire che in qualche modo a casa ci riuscimmo ad arrivare; era stato estenuantemente bello, ma era finita, per quell’anno: se ne sarebbe riparlato il seguente, magari con qualcuno di più da andare a trovare nella sua ultima dimora.

In quegli anni morì lo zio Carlo, marito della prozia Anna di Montebello, genero della nonna Cesarina che ricordo in una foto nella cappella di famiglia con la gonna nera lunga fino ai piedi, come usava allora, intenta a dare da mangiare alle sue galline: era la mamma di mia nonna.

Ora se ci ripenso, penso a tombe abbandonate, a morti dimenticati, perché non c’è più chi ne teneva la memoria.

Io, però, almeno una volta all’anno, non necessariamente il due novembre, vado a trovare lei, la zia Mirta e gli zii Vincenzo ed Erminio e nonno Paolo e nonna Lina e il cugino Mario e, soprattutto, mia mamma e mio papà.

Le loro tombe, dei colombari, sono sempre da mettere in ordine: ragnatele da spolverare, fotoceramiche da lucidare, fiori(finti) da cambiare; ci vado solo io oramai, perché la zia Mirta non c’è più e quando io non ci sarò più neppure io, sarà persa anche la loro memoria.

Niente più festa e visite, quel giorno, per i nostri morti

 
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Pubblicato da su ottobre 4, 2020 in Uncategorized

 

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