LA STANZA
La famiglia Vietti era, o era stata, una famiglia felice, anche se il termine può apparire esagerato. Allora diciamo… serena, unita, tranquilla?
Marta, la madre e moglie faceva la… madre e la moglie, ma faceva anche piccoli lavori di sartoria in casa, costantemente piegata sulla sua macchina per cucire: probabilmente da vecchia la sua schiena ne avrebbe risentito, ma adesso era ancora una donna giovane e attiva, di poco oltre i quaranta.
Franco, il padre era un uomo affascinante: alto, robusto senza essere in sovrappeso, capelli, occhi e baffi neri, un paio d’anni più della moglie, che per un uomo significano essere nel pieno vigore; anch’egli lavorava da casa facendo traduzioni letterarie, a volte di manuali, altre di documenti: aveva una laurea in lingue straniere, Inglese e Tedesco.
E poi c’erano i due figli, due, il numero ideale, entrambi maschi: Germano e Michelangelo, diciassette anni il primo, undici il secondo.
In quella famiglia, nonostante l’imponenza e il fascinoso carisma di Franco, nessuno comandava, non c’era bisogno: tutti sapevano cosa fare e quando e le decisioni venivano prese insieme.
Un’utopia, ce ne fossero di famiglie così!
Poi…
Poi Germano se ne andò, non da casa, ma dalla vita: in due mesi una straziante e fulminante malattia del sangue se lo era portato via.
Santo Dio! Era il primogenito, quello su cui Franco aveva riposto tutte le sue speranze per un futuro luminoso. Bello, bravo a scuola, una promessa del canottaggio, simpatico a tutti ed estroverso, pronto a prendere il mondo in mano ed invece…
I mali più carogna non guardano in faccia a nessuno. O forse lo fanno, perché non colpiscono mai i disonesti, gli speculatori, i seminatori di odio, bensì le brave persone, quelle che lasciano un vuoto incolmabile.
Ci fu un bel funerale, sempre che i funerali possano essere belli, con tanta gente e tantissimi fiori e poi per molti dei presenti tutto finì con una lastra di marmo incastrata davanti a un colombario.
Per la sua famiglia, invece, non era la fine del dolore, ma solo l’inizio.
I tre superstiti erano tornati a casa, una casa che improvvisamente pareva diventata enorme; appena entrati madre e figlio minore, oramai l’unico figlio, si abbracciarono singhiozzando, ma papà Franco no: lui non aveva versato una sola lacrima né durante la malattia, né dopo l’ultimo respiro di quella cosa che oramai non era più il figlio bello e atletico che aveva generato e neppure durante il funerale.
Marta e Michi si accasciarono sul divano, incapaci di muoversi; Franco salì al piano superiore, aprì la porta della stanza di Gabriele e rimase lì, sulla porta, senza entrare, senza fare nulla, a guardare il letto, l’armadio, i poster, il computer, la racchetta da tennis, il remo appeso alla parete, tutte le cose che adesso erano anch’esse morte.
Vi rimase per un tempo indefinito, forse ore. Ad un tratto si accorse che accanto a lui c’era Michelangelo e che voleva entrare a toccare, carezzare, profanare le cose del fratello.
Franco alzò una mano per colpirlo, lui che non aveva mai masso un dito addosso ai figli, ma non lo fece.
Ciò che fece male al bambino fu lo sguardo del padre, uno sguardo che pareva dirgli: “Tu non esisti, dovevi essere tu ad andartene, non lui” o almeno così Gabriele interpretò l’occhiata del genitore. Il bambino scappò via in lacrime.
Come risvegliato da quell’episodio Franco chiuse la porta e scese in cucina; rovesciò sulla credenza il cassetto di mezzo, quello dell’ ” un po’ di tutto” e sbatté il contenuto all’aria fino a che non trovò la chiave della stanza di Gabriele.
In quella casa non c’erano chiavi alle porte, non ce n’era bisogno. Poi risalì e chiuse la porta a doppia mandata ed era chiaro il messaggio al resto della famiglia: che nessuno osi entrare. La chiave scivolò nella tasca dei suoi pantaloni e lì rimase.
Dal giorno del funerale la famiglia Vietti smise: Franco smise di lavorare e di rispondere alle chiamate di lavoro al telefono.
Marta smise di cucire, di cucinare, di pulire casa e Michelangelo smise di andare a scuola. Anche alle chiamate del dirigente scolastico nessuno rispose mai, ma sapendo della tragedia che li aveva colpiti questi non segnalò alle autorità la violazione dell’obbligo scolastico.
Marta ordinava la spesa on line, tutta roba pronta da mangiare senza cucinare, pagava con ciò che avevano in banca, ma che si andava assottigliando rapidamente, visto che c’erano state anche le spese del funerale.
Morire costa caro e non solo in lacrime.
Franco scese a dormire sul divano, ma dormire era una parola grossa, perché Marta lo sentiva passeggiare per casa quasi tutta la notte e poi la mattina sovente lo trovava lì, in piedi, a fissare la porta chiusa della stanza del figlio che non aveva più.
Ma soprattutto padre, madre e figlio smisero di parlare e di parlarsi, forse anche di amare e amarsi, quasi che i suoni e i sentimenti disturbassero il loro dolore e il dolore non è un frastuono, ma un assordante silenzio.
Parevano tre zombi: giravano per casa e si incrociavano senza dirsi nulla, senza sfiorarsi, senza vedersi e il più invisibile era il piccolo Michelangelo che soffriva la mancanza del fratello, della madre e soprattutto del padre: non che l’uomo lo odiasse, semplicemente era diventato invisibile per lui. Franco era invecchiato di dieci anni, capelli in disordine, barba lunga e ingrigita. Probabilmente non sarebbero durati ancora molto senza lavorare, parlare, mangiare, vivere, amare.
E Franco passava ore davanti alla porta chiusa a chiave della stanza.
Nessuno dall’esterno osava disturbarli, nessuno sapeva, tutti volevano solo rispettare il loro dolore, perché ognuno lo vive a modo proprio.
C’è un percorso che può essere più o meno lungo, diverso per tutti, ma prima o poi l’istinto di sopravvivenza prevale e si torna a vivere, ma il dolore di una perdita non si supera, non si supera mai. Magari si accetta, alla fine, si cerca di conviverci per puro istinto di sopravvivenza..
Spesso Franco dopo aver passato notti insonni davanti alla stanza del figlio che non aveva più si addormentava in pieno giorno sul divano; Marta allora si sedeva sulla poltrona davanti a lui a guardarlo muta a constatare come fosse invecchiato di anni in poco tempo e Michi allora, in silenzio, saliva di sopra e si metteva a fare la guardia alla stanza al posto del padre.
Fu così che Franco lo trovò un giorno, come un soldato di sentinella ad allora lo afferrò, tremante, lo strinse e finalmente lo bagnò di lacrime e sentendo i singhiozzi arrivò anche Marta e tutti e tre piansero abbracciati
Ecco, la fase più dura era forse passata, forse adesso sarebbero tornati a vivere e non essere invisibili gli uni agli altri, forse il loro strazio sarebbe stato mascherato da ognuno per non fare del male agli altri, a chi non lo meritava. Certi dolori lasciano cicatrici che non passano mai, ma alla fine si può accettare di tirare avanti pur con la loro presenza.
La stanza di Gabriele, però rimase chiusa e fossilizzata così com’era.
Forse lo è ancora adesso.