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L’AMICO DEL CUORE

L’AMICO DEL CUORE

La lezione d’italiano era in corso quando si aprì la porta ed entrò il bidello con la mano sulla spalla di un ragazzino magro e dalla carnagione scura: “Scusi, professoressa, questo è il nuovo alunni di cui le ha parlato il preside”.

“Va bene Rosario, lo lasci pure; grazie” , rispose l’anziana docente della prima C della scuola media Guido Gozzano di Milano.

Poi si rivolse alla classe: “Questo è Fabrizio, il vostro nuovo compagno; su, va a sederti là, vicino a Ferruccio, che è da solo”.

Il ragazzino nuovo parve incerto: “Ma questa è la sezione di spagnolo e io volevo fare inglese!”, disse con aria piccata all’insegnante e senza dare cenno di avviarsi al suo posto.

Qui ti hanno messo e qui resti ed ora fila a sederti” tagliò corto la donna a cui non piaceva che un ragazzino le si rivolgesse con quel tono.

Erano altri tempi: alla scuola media si studiava una sola lingua straniera, se si esclude il latino, obbligatorio per tutti.

Erano anche i tempi in cui le scuole erano piene zeppe di sezioni e le classi di alunni, erano i tempi di maschi coi maschi e femmine con le femmine e dei doppi turni.

Era il secondo dopoguerra, i primi anni del boom economico e si facevano ancora figli, perché le donne non lavoravano e avevano tempo di curarli.

Non c’era bisogno di un secondo stipendio, perché c’erano poche esigenze: l’automobile era posseduta da non più del venti per cento della popolazione, ancor meno se si andava nei paesi, la televisione molti la vedevano al bar e spesso, al posto del frigorifero, si usava la tazza d’acqua con il burro sulla finestra, per mantenerlo fresco e le donne che non lavoravano facevano la spesa tutti i giorni nei negozi sottocasa perché il primo supermercato era ancora da venire.

Fabrizio mal volentieri andò a sedersi accanto a Ferruccio, il più bravo della classe, ma anche il più buono.

Il ragazzino aspettava solo quello: un compagno di banco e un amico, anche se non sarebbe stato facile sopportare quel ragazzo nuovo, capriccioso, a volte al limite dell’arroganza e della prepotenza, ma loro si sarebbero ben compensati.

Durante l’intervallo il nuovo arrivato aveva mille domande per il suo compagno di banco: i titoli dei libri di testo, l’orario delle lezioni, notizie sui professori e sui compagni.

Da lì iniziò un’amicizia che l’anziana professoressa definì “a filo doppio”.

Fabrizio era figlio di un dirigente di banca, stava bene economicamente, forse anche troppo per la posizione del padre e viveva in una villetta con giardino.

Ferruccio, invece, aveva il babbo impiegato, con uno stipendio modesto e stava in un normalissimo appartamento coi genitori e due sorelle più grandi.

Divenne un’abitudine per i due, nonostante non abitassero vicinissimi, vedersi tutti i giorni per i compiti e per i giochi.

A Ferruccio, prigioniero in un condominio, piaceva da matti poter giocare in giardino dall’amico, anche se poi non mancavano i litigi, come quando la mamma di Fabrizio propose loro d’innaffiarle le piante con la canna; finì che i due si bagnarono a vicenda da capo a piedi, poi uno spintone, una sassata su una mano e Ferruccio scappò a casa, soffocando le lacrime e senza dire nulla ai genitori del suo precipitoso ritorno (di solito non era mai a casa prima delle otto di sera, almeno nella bella stagione).

Ma comunque pareva che i due si volessero veramente bene, che ognuno fosse per l’altro l’amico del cuore, una situazione che a quei tempi era più frequente, perché non c’erano internet e i cellulari a isolare i ragazzi o a decuplicare le loro amicizie senza, però, averne una vera, di quelle con l’iniziale maiuscola.

Come detto Ferruccio era il primo della classe e Fabrizio gli stava dietro, ma comunque gli era inferiore e, col suo carattere, la cosa lo infastidiva tanto più quanto il fatto  era che ad essergli davanti era il suo amico del cuore e non uno qualunque.

All’altro non sarebbe interessato nulla se le parti si fossero invertite.

Comunque i due ragazzi andavano in piscina, al cinema, magari a fare un giro in centro città ogni sabato, sempre insieme, senza mai tradire l’amico per un altro.

Era anche un’epoca nella quale a undici, dodici, tredici anni si portavano ancora i pantaloni corti tutto l’anno e non si pensava minimamente alle ragazzine e al sesso; c’era solo il gioco e la fantasia per crearne sempre uno nuovo.

Trascorse così la prima media, la seconda, ed iniziò la terza; la sezione di spagnolo, poco ambita, aveva pochi iscritti e, col passare degli anni scolastici, fra bocciature e trasferimenti, si erano ridotti ad essere solo in nove, così vennero smistati in altre sezioni, pur mantenendo la lingua straniera scelta dall’uno e affibbiata all’altro.

Ora non erano più né in banco, né in classe insieme e così cominciarono anche un po’ ad allontanarsi: insegnanti diversi, compiti diversi, compagni diversi.

Soprattutto fu Fabrizio ad allontanarsi dall’altro e rivelò ad un comune amico che era contento di quella separazione, perché giudicava quasi un complotto di Ferruccio il fatto che questi gli fosse sempre davanti come risultati.

Quando l’amico lo venne a sapere ci soffrì e non poco: lui voleva veramente bene a Fabrizio e per lui amico del cuore non era un modo di dire: si era sentito tradito e preso in giro.

Con l’avvicinarsi degli esami di terza, poi, i due si persero praticamente di vista; se Ferruccio telefonava all’amico, questi si faceva negare con una scusa: “È dalla nonna, è da un amico, sta studiando, è a letto perché non si sente bene…”.

Nonostante ciò Ferruccio non se l’era tolto dal cuore.

Poi successe il patatrac: il padre di Ferruccio, come si sospettava, da anni rubava alla sua banca e la cosa saltò finalmente fuori.

Per soffocare lo scandalo, la banca preferì, al licenziamento e alla denuncia, una promozione e un trasferimento in un piccolo paese del centro Italia per l’uomo.

Era proprio il capolinea dell’amicizia dei due ragazzi, un’amicizia che era stata grande per pochi anni, ma era finita nel peggiore dei modi.

I destini dei due presero definitivamente strade diverse: il mediocre Fabrizio andò al liceo scientifico, mentre il bravo Ferruccio, la cui famiglia non avrebbe potuto permettersi l’università, s’iscrisse a geometra.

Passarono gli anni, vennero i diplomi, le fidanzate, le mogli, ma mai più le loro strade s’incrociarono.

Vennero anche le compagnie e le amicizie, ma nessuna fu mai come quella dei loro dodici anni.

Anche il matrimonio di Ferruccio non andò bene e così lui rimase solo, solo coi ricordi, i rimpianti e le malinconie.

E proprio in un giorno di quelli delle sue malinconie ricorrenti, gli tornò in mente la frase finale di un film che adorava: “Non ho più avuto amici come quelli che avevo a dodici anni, ma Gesù, chi li ha?”.

Allora una singola lacrima gli scivolò sulla guancia e, forse, solo allora si rese conto di cosa fosse davvero l’amicizia e di avere finalmente capito la vita.

 
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Pubblicato da su novembre 11, 2012 in Racconti

 

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LA BELLA SIGNORA

LA BELLA SIGNORA

Fin da quando cominciò la mia vita pensante, a dieci anni, forse, devo confessare che cominciai a sentirmi particolarmente attratto dalle donne certamente era una cosa naturale, forse per quei tempi un po’ precoce.

Varigotti__ingr_carraio_giardino_DWNNon era, non ancora, almeno, un’attrazione erotica, ma puramente estetica, amavo la bellezza che le donne rappresentavano, molto più di quella maschile, la quale non ha, invece, dei canoni così puri.

Mi era già capitato, in diverse occasioni, di vedere dei miei amichetti senza abiti, quando facevamo la doccia dopo la partita di calcio: li trovavo insulsi, ridicoli con quell’inutile, minuscola protuberanza, o che magari un’utilità ce l’aveva, magari anche più di una, forse, ma non diceva nulla al mio senso del bello.

Poi, appunto verso i dieci anni, mi capitò, per caso, di vedere una mia cuginetta più piccola di due anni di me, che era venuta a trovarci con la madre, nuda in attesa di fare il bagno: era la prima volta che vedevo qualcuno dell’altro sesso senza vestiti e la cosa mi turbava, mi esaltava, mi faceva sentire strano.

Lei mi sorrideva maliziosa: il suo torace era piatto, interrotto solo da quelle due macchie simmetriche color cipria antica, appena accennate e poi, sotto l’ombelico, aveva quella misteriosa cosa che non assomigliava alle protuberanze dei miei compagni, anzi era il loro negativo, ma era buffa, a dirla proprio tutta allora mi faceva un po’ senso, non so per quale motivo mi ricordava una chela di granchio!

Le ragazze più grandi e meglio ancora le donne adulte erano, per il mio gusto estetico, tutt’altra cosa.

Non che ne avessi mai vista, come ho detto, una priva di abiti (a quei tempi non usava il nudo né in televisione, né sui giornali), ma le loro forme morbide, armoniose, il seno che era ben altro che non quello di mia cugina, mi appagavano la vista e mi facevano sentire una specie di febbre: qualcosa dentro di me si rimescolava e non sapevo spiegarmi cosa fosse; pensavo che se il seno di una donna cresceva con l’età, rispetto a quello della cugina di otto anni, forse ciò che c’era anche là sotto sarebbe stato diverso in una donna adulta da quello di una bambina, da quelle buffe chele di granchio delle quali non intuivo la funzione.

Quell’anno, quello di tutte le scoperte anatomiche della mia pre – pubertà, andammo in villeggiatura estiva in un paesino della riviera ligure di ponente, Varigotti, dove avevamo affittato, se non proprio una villa, una grande casa con giardino; con noi c’era anche la cugina della mamma col marito e la figlia, quella che avevo vista nuda a casa mia.

Nel giardino della casa – villa c’era una grande vasca, una non – piscina, visto che eravamo in una non – villa, dove noi bambini (io, il mio fratellino di tre anni, il figlio dei vicini di casa quasi mio coetaneo, e la cuginetta) potevamo sguazzare per rinfrescarci della calura quando non andavamo in spiaggia, magari mentre i nostri genitori riposavano dalla calura nell’ombra delle spesse mura.

Tutti gli altri bambini facevano il bagno in questa non piscina senza il costume da bagno, tanto eravamo considerati piccoli ed eravamo, comunque, protetti alla vista dei vicini da un’alta siepe e la cuginetta – granchio regolarmente mi invitava a spogliarmi e ad unirmi a loro: non lo volli mai fare, almeno all’inizio, non mi andava l’idea di quella promiscuità, di dover confrontare la mia intimità con quella del vicino di casa.

M’infastidivano i due maschietti col loro piccolo e ridicolo pendente e mi infastidiva anche la spudoratezza della cuginetta che ogni volta che mi invitava a spogliarmi mi sorrideva in un certo modo strano; allora, invece di unirmi a loro, girovagavo per il giardino facendo i miei giochi da bambino, immaginandomi di essere un esploratore e mentre loro erano nudi, io mi aggiravo fra pitosforo e buganvillee con calzoni al ginocchio, una maglietta a righe orizzontali, un enorme cappello di paglia e stivali di gomma; per me era quello l’abbigliamento dell’esploratore e il giardino profumato era la mia giungla misteriosa.

Fu allora che, per la prima volta, vidi la bella signora.

Stava su un terrazzino della villa confinante e, data la posizione elevata di questo, la siepe non garantiva intimità a nessuno dei due.

Poggiava le mani sulla balaustra del balcone e guardava lontano, come chi cerca di scorgere, o di lanciare, all’orizzonte i propri pensieri.

Indossava una camicia da notte cortissima e semi – trasparente; sotto di essa intravvedevo il seno prosperoso e le sue terminazioni, più scure e rilevate di quelle della mia sfacciata cugina, ma soprattutto dove finiva la sua veste vedevo che iniziava un cespuglio di peli castani che coprivano qualcosa di ben diverso dalle chele di granchio che avevo visto a Teresa, qualcosa che potevo solo immaginare, un tesoro protetto dalla sua giungla personale.

Sentivo le guance avvamparmi e ancora quello strano dolore, ma non spiacevole, dentro di me; poi lei si girò, mi vide, mi sorrise e con la mano posta di taglio coprì quella piccola foresta, forse la vera giungla inesplorata che andavo cercando.

Io, coi miei ridicoli stivali e il cappello di paglia, mi vergognavo: li tolsi e poi, a piedi e capo nudi corsi via con il cuore che sembrava schizzarmi fuori dal petto.

Giunto alla non – piscina mi levai maglietta e pantaloni, ma non gli slip, e mi gettai in acqua: ero tutto un fuoco da spegnere.

Subito il vicino e la cugina mi furono addosso per giocare, mi spinsero sott’acqua, mi spruzzarono, mi fecero anche bere quell’acqua non proprio limpidissima; io non reagii: non ero lì che col mio corpo, ma la mia mente era rimasta nelle due foreste.

Mi spinsi altre volte in quell’angolo di giardino, senza rivedere la bella signora: forse era partita, forse non 6538_572926656064540_1854745059_npassava le sue giornate a mostrarsi semi nuda a un bambino di dieci anni.

E invece un giorno la rividi; stavolta indossava un costume in due pezzi, cosa che per quei tempi era uno scandalo.

Stavolta mi vide subito, s’accorse che la guardavo, mi sorrise e si levò la parte superiore del costume: era bella ed era naturale per lei mostrarsi, elargire tanta bellezza, fosse pure a un bambino.

Solo da adulto avrei compreso che la sua non era perversione, bensì un disperato tentativo di comunicare la sua solitudine, di offrire la sua bellezza che, se non condivisa, sarebbe stata sprecata.

Io mi levai ciò che portavo ai piedi, sandali o stivali che fossero, non ricordo, poi la maglietta ed anche tutto il resto e rimasi nudo, con il mio corpo magro e glabro offerto alla sua vista, a dimostrare che anche su di me il tempo non aveva ancora cominciato ad accanirsi.

Rise, lo fece soprattutto con gli occhi; mi vergognai e scappai, senza vestiti, forse piangendo.

Giunsi nudo alla vasca e mi gettai con gli altri: mi furono subito addosso, qualcuno mi afferrò là sotto e non seppi mai chi fosse stato dei tre: stavolta fui io a infilare la testa sott’acqua per nascondere le mie lacrime di vergogna, che oramai prorompevano inarrestabili e dell’impotenza di non essere ancora grande.

Ci vollero giorni prima che mi decidessi a tornare al punto dove si scorgeva la terrazza: lei era nuovamente là ed indossava ancora la corta camicia trasparente.

Non mi feci vedere e rimasi a lungo ad ammirarla: era la cosa più bella che avessi mai visto; era bella vestita e lo era anche seminuda.

Qualche giorno più tardi andai fra i pitosfori con la mia macchinetta fotografica, regalo dell’ultimo Natale e, nascosto, la fotografai e poi ancora e ancora: finii il rullino.

Solo più tardi mi resi conto che non potevo certamente, alla mia età, portare dal fotografo una serie di scatti di una bella signora che non si negava agli sguardi.

Dopo di allora la rividi un’ultima volta soltanto, avvolta nella sua camiciola trasparente, come la prima volta: stavolta mi mostrai, quasi a sfidarla.

Lei si voltò verso di me e si sfilò quell’unica barriera fra il suo corpo e il mio sguardo; poi mi fece un gesto con la mano aperta, come a porgermi qualcosa, ma era un invito: “Adesso tu!”, diceva quel gesto; ancora una volta scorsi nel suo sorriso una disperata solitudine.

Mi spogliai completamente assecondando la sua muta richiesta, come già avevo fatto e rimasi così, ben fermo sulle gambe, a mostrare che anch’io sotto i vestiti avevo un corpo da offrire alla vista; il mio membro acerbo mi sembrava ora una barra d’acciaio infuocata; non so quanto rimanemmo in quella posizione di stallo; poi mi sentii chiamare, sobbalzai e mi rivestii in tutta fretta, ma senza staccare lo sguardo da lei e con quel dolce dolore che sentivo nel profondo del mio corpo, da qualche parte indefinibile.

Anche lei si rinfilò nella sua camiciola; la salutai con la mano e non la vidi mai più.

Mamma – chiesi qualche giorno più tardi mentre eravamo a tavola, con nonchalance – non abita nessuno nella villa accanto?”. “Oh sì, ci vive una bellissima signora che, però, a quanto mi han detto in paese, non esce mai, non riceve mai nessuno: fa vita ritirata”. “Forse vuol tenere la sua bellezza solo per sé” commentò la cuginetta distrattamente, mentre attaccava a coltellate una cotoletta, ma io pensai che era proprio così ed io, io solo, avevo avuto il privilegio della visione di quella bellezza, di tutta la sua bellezza più intima: chissà se anche per lei vedere me aveva significato qualcosa, visto che me lo aveva chiesto con quel suo sguardo triste…

L’anno seguente non tornammo in vacanza a Varigotti: anzi, non vi tornammo mai più.

Io ero cresciuto molto e cominciavano a spuntarmi i primi peli là sotto e un po’ dappertutto.

Anche mia cugina Teresa era cresciuta ed ora, quando faceva il bagno, non mi si mostrava più nuda.

Come tutti bambini, anche se non ero più un bambino, avevo una vecchia scatola da cioccolatini con dentro le mie cose segrete: fra queste un rullino di foto mai sviluppato: a volte, quando ero solo, mi chiudevo in camera, lo prendevo dal suo scrigno e me lo strofinavo sul ventre , sul petto e sulla fronte e rivedevo ancora la bella signora come se fosse lì presente.

Crebbi, ebbi la mia prima fidanzata, poi ne vennero altre.

Mia cugina divenne un bella ragazza e la mia migliore amica e confidente, ma mai le raccontai della signora: quella era una cosa solo mia, anzi, nostra.

Teresa era bella, ma mai come quella signora del mare; penso che da sempre mia cugina fosse stata innamorata di me, ma poi anche lei ebbe il suo primo ragazzo, un lungagnone brufoloso che mi risultò subito antipatico: forse ero geloso; crebbi ancora, perché il tempo vuole così, passa, ci fa cambiare e, a volte ci distrugge, accanendosi su quanto di bello il nostro corpo sa offrire.

Divenni un uomo, mi laureai e mi sposai.

In una giornata di quelle maccagnose in cui sai pensare solo a cose tristi, a ricordi e rimpianti lontani, non so per quale motivo, m’infilai con la macchina in autostrada e mi ritrovai in Liguria, a Varigotti.

Telefonai a mia moglie: “Cara, ho dovuto partire urgentemente per lavoro, starò via tre o quattro giorni. Ti chiamo. Bacia i bambini”.

Presi una camera in albergo; mi ci volle un giorno intero per trovare il coraggio di andare a rivedere la casa delle vacanze di quel solo anno, quella che non era una villa e non lo era no, adesso che la guardavo con occhi adulti: era una casetta minuscola, che solo la fantasia di un bambino che vede enorme tutto ciò che è più grande di lui, aveva scambiato per una villa con piscina; era disabitata e il cancello era chiuso da una catena e da un grosso lucchetto, entrambi arrugginiti dal tempo e dall’aria salmastra; vi girai intorno, vidi l’altra villa, quella sì lo era veramente, ma pareva disabitata anch’essa.

Sulla passeggiata a mare c’era un chiosco: ”AGENZIA IMMOBILIARE”, c’era scritto in modo un po’ pretenzioso; finsi d’essere interessato a un acquisto: la casetta delle vacanze di trent’anni prima era effettivamente in vendita, ma era praticamente in rovina, allora chiesi notizie della villa, quella vera: “Oh, no, quella è abitata, ci vive una anziana signora da sola: un tempo era una bellissima donna che già allora non usciva mai: figuriamoci adesso che è vecchia!”.

Ringraziai e me ne andai: pensai a quella donna stupenda che mi aveva introdotto definitivamente, in un certo senso, all’amore verso l’altro sesso, la rividi nuda sul balcone, come l’ultima volta.

Poi la pensai come doveva essere ora, uccisa dal tempo nella sua bellezza, devastata dagli anni, forse una povera pazza costretta a stare rinchiusa a ripensare a ciò che aveva perduto, forse serbando il ricordo di un bambino di dieci anni che le si era mostrato nudo e al quale, solo, aveva concesso la visione della sua perfezione femminile e quello era rimasto per sempre il loro segreto.

Guardai un’ultima volta le due case; il pitosforo era morto, il terrazzino decrepito; mandai un bacio verso il balcone, feci ciao con la mano, come farebbe un bambino, un bambino di dieci anni, poi telefonai a mia moglie e tornai a casa.

Nel ripostiglio, in una vecchia scatola di cartone da cioccolatini giace ancora, dimenticato da tempo, un vecchio rullino fotografico che ha serbato solo per sé e per sempre il segreto della bellezza.

 
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Pubblicato da su aprile 27, 2011 in Racconti

 

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