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LA BAMBOLA DI PEZZA

LA BAMBOLA DI PEZZA

Aisha viveva da sempre, cioè da quando era nata, in una zona sperduta e povera di un paese già di per sé povero, non sapeva nulla di politica e sapeva poco della vita, ma è naturale, lei aveva solo quattro anni.
Quel poco che aveva imparato di questa, però, e lo aveva imparato fin da subito, e cioè che è dura, che bisogna lottare ogni giorno con i denti solo per sopravvivere, per avere il minimo indispensabile per tirare avanti.
imagesPer il resto, lei non sapeva nulla di oriente e occidente, di blocchi contrapposti, di ideologie e religioni, di terrorismo, vendette, attacchi preventivi.
Aisha nei suoi quattro anni non aveva mai visto la televisione e neppure sapeva che esistesse una cosa simile, dove persone prigioniere lì dentro ti facevano ridere e piangere, ti informavano e ti ingannavano.
Ovviamente non sapeva nemmeno che in altre parti del mondo c’erano bambine come lei che, però, avevano da mangiare tutti i giorni, vestiti sempre nuovi e puliti, acqua calda per lavarsi, scuole per imparare e, soprattutto, bambole e videogiochi e tante meraviglie per godersi un’età che, forse, è tutto ciò che di bello ci è concesso in un’intera esistenza.
A dire il vero lei qualche giocattolo lo aveva: un paio di animali scolpiti nel legno dal nonno e una minuscola bambola che lei considerava la sua bambina, come vedeva tutte le donne del suo villaggio averne una, e pazienza se la sua era inanimata: lei era piccola, ma da grande avrebbe portato anch’essa, attaccata al proprio seno, una creatura vera, in carne e ossa, una di quelle che piangono, ma poi ti sorridono e ti tendono una minuscola mano ad afferrarti il naso, come faceva il suo fratellino, e allora ti si apre il paradiso, qualunque cosa esso sia, fosse pure solamente quella breve felicità di un sorriso sdentato di una minuscola creatura.
Aisha viveva sulle montagne, dove non era neppure possibile coltivare nulla, perché la terra era gelata e rocciosa: tutto ciò che avevano era qualche capra e pochi sacchi di farina per fare il pane, che qualcuno ogni tanto portava su dalla pianura in cambio di latte e formaggio.
Poi, un giorno, cominciò a sentire rombi lontani, che però non erano tuoni, e vedeva passare nel cielo enormi uccelli rilucenti, molto più grandi di qualsiasi uccello avesse mai visto, solo che ai grandi non piacevano quelle creature e, ogni volta che passavano, la gente fuggiva e la mamma la trascinava via per un braccio; però, invece che nella loro capanna, la portava alle grotte e ne uscivano solo quando non si sentiva più quello strano rumore che facevano i grandi uccelli.
Quella volta non successe nulla, ma in seguito, dopo il passaggio di quegli strani animali rombanti, rimasero buche nel terreno e una volta furono distrutte anche un paio di baracche, compresa quella della zia di Aisha che, così, dovette andare a vivere con loro, insieme al marito e al suo bambino, in attesa che si potesse ricostruire la loro abitazione; vivere nelle grotte non era possibile per la troppa umidità e perché c’era freddo e se vi accendevi un fuoco il fumo ti soffocava.
Altro tempo trascorse, la bambina cresceva, una donna, che era tornata da poco al villaggio, aveva organizzato una piccola index44scuola per Aisha e per gli altri bambini della montagna, così lei imparò a leggere, a scrivere, a capire qualcosa anche di ciò che succedeva nel suo paese.
Un giorno, al posto degli uccelli, che aveva imparato a chiamare aerei, arrivarono degli strani carri fatti di ferro che si muovevano senza essere tirati da uomini o animali; dal loro interno usciva una voce potente che, nella sua lingua, spiegava che prima loro vivevano male a causa di chi li comandava, ma adesso erano arrivati loro, i liberatori, e tutti avrebbero vissuto meglio.
Ad Aisha non sembrava che da quando erano comparsi gli aerei loro vivessero meglio: anzi, sua zia aveva perso anche la sua capanna.
Anche altri non pensavano che le cose andassero meglio, tanto che si misero a prendere a sassate i carri di ferro; allora la voce da dentro cambiò, divenne cattiva, li chiamò terroristi e complici del vecchio regime, li minacciò e poi dal carro uscirono delle fiammate ed Aisha si tappò le orecchie e quando i carri se ne furono andati alcuni uomini e ragazzi erano per terra morti: che male potevano aver fatto con dei sassi contro i carri di ferro?.
Passarono mesi e anni, vennero ancora gli aerei a distruggere case, ma non vennero più uomini via terra a promettere loro benessere per poi ammazzare la gente.
Aisha aveva ora otto anni, sapeva leggere e scrivere e aveva imparato un po’ di più sulla storia del suo paese, ma soprattutto aveva capito che chiunque li governasse, lassù sulle montagne ci sarebbe stata sempre solo fame e miseria.
Poi, un giorno, arrivarono lassù altri carri di ferro, però più piccoli di quelli della prima volta.
Russian humanitarian convoy arrived in Mariupol, UkraineQuesti erano bianchi e avevano scritte sul fianco delle lettere che non capiva.
La gente, nel vederli, era fuggita, aveva lasciato le capanne ed era corsa alle grotte, perché aveva imparato a non fidarsi.
Anche i bambini, che di solito sono i primi a fidarsi di chiunque, in quell’ambiente e quella situazione avevano imparato la paura e la diffidenza.
Anche da questi nuovi carri qualcuno parlava nella loro lingua e diceva che erano lì per aiutarli, che loro non c’entravano con quelli degli aerei, ma la gente non credette loro: l’ultima volta troppa gente era rimasta a terra per sempre, così ricominciarono i lanci di pietre.
Stavolta, però, nessuno reagì e i carri se ne andarono così come erano venuti, senza nessuna replica, senza più nessun messaggio di pace e promesse di aiuto.
Arrivare lassù non era stato facile, anche se oramai l’inverno stava finendo e neve e ghiaccio si erano sciolti quasi del tutto.
Passarono così diversi giorni ed arrivarono altri carri di ferro, solo che questi erano aperti e si vedeva la gente che c’era dentro.
Erano diversi da quelli dell’ultima volta, differenti come colore e per le scritte sulle loro fiancate: anche se pure queste erano incomprensibili, Aisha si ricordava di quelle altre e aveva capito che questi erano altri uomini.
Stavolta nessuno parlò, ma scaricarono qualche sacco di farina e lo lasciarono lì a terra, poi se ne andarono.
Tornarono dopo diversi giorni e, stavolta la gente non si era nascosta e i bambini, specialmente i più piccoli, si avvicinavano curiosi.
Stavolta non avevano farina, ma cominciarono a lanciare caramelle ai bambini, fino a che questi si fecero più intraprendenti e si avvicinarono a quegli uomini stranieri con le manine tese in cerca di qualcosa d’altro.
Anche Aisha si avvicinò fra i più piccoli; ora venivano consegnate a tutti delle bambole, ma molto più belle di quella di legno che jutalei aveva fin da quando era piccola: queste erano di pezza, avevano gli occhi azzurri, la bocca rossa, bei vestiti ed erano morbide che ti veniva voglia di stringerle al petto come se fossero dei bambini veri.
Per i maschietti c’erano, invece, animali che sembravano fatti di pelo vero.
Aisha incredula allungò la mano verso gli uomini dei carri e, inaspettatamente, questi diedero una bambola anche a lei, la prima vera bambola della sua vita; la bambina era felice, doveva farla vedere subito alla mamma!
Corse in casa, ma quando i grandi la videro entrare con la bambola al petto, cominciarono a gridare, a dirle di gettarla via.
Che sciocchi: non avevano capito che lei non l’aveva rubata, che era proprio sua, che era un regalo, ma mentre cercava di spiegarlo loro, tutti indietreggiavano, si stringevano in un angolo della capanna, la zia col piccolo stretto a sé, come pure la mamma.
Lei avanzava per fare toccare anche a loro quella bellissima bambola così morbida, per fare loro capire che non c’era nulla da temere, era solo un giocattolo.
Poi ci fu lo scoppio e dopo non ci fu più nulla, non più la capanna, non più la gente, non più la bambola, la prima della sua breve vita.
E anche l’ultima.

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Pubblicato da su Maggio 5, 2015 in Racconti

 

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