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UN VASETTO DI OLIVE

 

UN VASETTO DI OLIVE

 

Massimiliano, superata la pubertà, la giovinezza, avviato verso un’età adulta che in un attimo ti trascina al declino, aveva cominciato a correre.

 

* * *

 

Da ragazzo aveva praticato basket a scuola, alle medie, ma poi per continuare gli mancava l’altezza; allora si era dato al tennis, così, senza avere mai preso una sola lezione e senza fare tornei, solo partite fra amici.

A Massimiliano piaceva fare sport, non per agonismo, non per questioni di linea, anche se mantenerla non guastava, pur sapendo che poi, quando smetti, il sovrappeso ritorna con gli interessi: gli piaceva semplicemente per il piacere di farlo, perché lo faceva sentire vivo, per l’adrenalina, le endorfine e quelle cose lì… e poi perché gli dava modo di stare con gli amici.

Già, gli amici: poi loro a uno ad uno passano, se ne vanno insieme con le età della vita; quelli delle scuole medie spariscono dopo l’esame di terza, quelli delle superiori dopo la maturità, i colleghi lo fanno se cambi posto di lavoro e ad un certo punto ti ritrovi da solo, perché avviandosi verso il tramonto diventa sempre più difficile stringere nuove amicizie, a meno che non inizi a frequentare circoli per anziani, ma a chi piace specchiarsi nei problemi, nei dolori, nel tramonto degli altri, sentire parlare solo di pillole e acciacchi? Massimiliano era sempre stato, per carattere, un tipo tranquillo, eppure quante ne aveva combinate anche lui ai tempi degli amici, quante mattane, zingarate, pazzie!

Poi tutto questo passa e lascia qualche ricordo e tanti rimpianti. Adesso che non era più un giovanotto gli serviva uno sport che si potesse fare da soli, senza una squadra insieme o senza avversari diretti e che avesse anche costi contenuti, perché lui non aveva molte possibilità economiche.

Gli venne in mente, così, la corsa, quelle cosiddette marce non competitive che in realtà competitive lo sono, lo sono perché spesso vengono premiati i primi o perché, comunque, si compete sempre contro se stessi, contro i propri limiti, si vuole andare a prendere quello che è lì davanti a te venti metri.

Di queste marce ce n’erano decine ogni domenica, in città e nell’immediata provincia, se ne trovavano dai cinque chilometri fino anche a trenta, se uno aveva l’allenamento e le gambe: lui aveva scelto quelle da cinque, sei, massimo otto chilometri, proprio perché conosceva i propri limiti.

Contrariamente a chi abita fuori città, verso la campagna – rientro dal lavoro, calzoncini e scarpette e via per campi e sentieri – lui vivendo in città non aveva tempo e modi di allenarsi: le marce domenicali erano allenamento e gara allo stesso tempo.

Dopo le prime corse  stagionali i tempi miglioravano, le gambe non facevano più male, il fiato non mancava più; riusciva persino a sprintare nelle ultime decine di metri, magari contro nessuno, magari contro se stesso.

E si sentiva bene: lui, come detto, non sapeva quelle cose mediche delle endorfine o altro, sapeva solo che stava bene quando correva, che dimenticava i dispiaceri, le preoccupazioni, che solo allora si sentiva vivo, quando correva.

Poi a casa, una doccia, l’abbigliamento ad asciugare prima di metterlo a lavare e stava bene tutto il giorno, almeno per quel giorno. Corse per dieci anni: centinaia di corse, qualche migliaio di chilometri accumulati nelle gambe, un vecchio quaderno con scritto luogo, data, distanza e tempo.

Col tempo, però, il suo fisico cominciò a dare segni di cedimento: non ce la faceva più a correre, a malincuore smise, s’intristì, si rifece viva la sua cronica depressione, ma lo sport gli aveva insegnato a non demordere, a lottare ed allora fece esami, si curò, migliorò, se non lo spirito, almeno il corpo: forse adesso poteva ritornare anche a correre.

Ricominciò da un parco giochi vicino a casa: intorno alle altalene per bambini, al campo da basket sempre occupato da filippini fanatici di questo sport, loro che non sono certo un popolo di giganti, anzi come si dice a Milano sono alti un metro e un biglietto del tram, c’era una specie di pista che girava tutto intorno, trecento metri in totale e ci si poteva gestire, cominciare con due giri, poi tre, otto, dieci, tredici, quindici col proprio passo, senza nessuna animosità, senza competizione.

Così quando le gambe ricominciarono a girare, Massimiliano riprovò con una corsetta da cinque chilometri in provincia, col cuore in gola, la paura di non farcela, che ritornassero quei dolori, le palpitazioni, le difficoltà di respiro.

Era un non competitiva… con classifica dei primi dieci ed erano un paio di centinaia a partecipare, dagli otto anni ai quasi novanta, gente che correva tre, quattro volte la settimana, oltre alla domenica: lo staccarono subito, ma lui andò avanti del suo passo.

Una volta un vecchio marpione esperto e fanatico di quel tipo di corse gli aveva rivelato una sacrosanta verità: “Quelli che al via schizzano come proiettili, lasciali andare: se sono veramente più forti, inutile seguirli, tenerne il passo o ti faranno schiattare; se la loro è solo una sparata iniziale li ritroverai più avanti con la lingua di fuori e la mano sulla milza”.

Questi, però, non li avrebbe ritrovati per strada, non erano loro ad andare troppo forte, ma era lui che andava troppo piano, ma questo era il passo che poteva mantenere, che la sua età e la sua salute gli consentivano.

Quando arrivò al traguardo, molti minuti dopo gli altri, stavano già smontando la zona premiazioni; qualcuno lo applaudì comunque, perché chi finisce una corsa ha vinto in ogni caso, ma restava il fatto che lui era arrivato ultimo.

Non se la prese, perché anche alle olimpiadi, ai mondiali, nella maratona, nel mezzofondo, nella marcia, ci deve essere un ultimo arrivato, perfino fra gente selezionata per le olimpiadi: stavolta era toccato a lui, non era un disonore e se avesse continuato con le corse, probabilmente, non sarebbe stata neppure la sola volta che sarebbe arrivato dopo tutti gli altri.

 

* * *

 

Erano pochi gli sfizi che Massimiliano poteva permettersi: un po’ per la pensione minima, un po’ per la salute, un po’ perché se lo era imposto, ma un giorno prese al supermercato un vasetto di olive: aveva voglia di metterle sulla pizza surgelata da poco prezzo, poco sapore e poca sostanza che teneva sempre in freezer e che ogni tanto cuoceva in quel maledetto forno che più che altro bruciava i cibi invece di cuocerli

Una sera gli venne una di quelle voglie di uno spuntino notturno prima di coricarsi: un cracker, anzi due, un pezzetto di formaggio e… ma sì, perché no: due olive dal barattolo di vetro che stava nella credenza.

Nel vasetto ne erano rimaste quattro a galleggiare nella salamoia, ultime sopravvissute alle pizze surgelate alle quali avevano dato, almeno, un po’ di varietà: tanto valeva a quel punto finire il vasetto, vuotare la salamoia, lavarlo e poi gettarlo nel sacchetto del riciclo del vetro.

Pescò la prima oliva denocciolata, poi la seconda, la terza e ne rimase alla fine una, l’ultima, senza nessun demerito, poveretta, era una oliva identica alle altre, ma era rimasta l’ultima solo perché un ultimo o un’ultima ci deve sempre essere in ogni campo (era così anche nella minestra con i piselli: c’era sempre un ultimo pisello a nuotare solitario nel brodo).

Allora se uno va a correre, anche se la corsa non è competitiva, ma ha una classifica, può capitare che arrivi ultimo, ma senza colpe o ignominie, solo perché il destino a volte gira così e lascia indietro un’ultima oliva, un ultimo pisello, un ultimo concorrente e tutto finisce solo dopo di loro.

 

 
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Pubblicato da su giugno 21, 2018 in Racconti

 

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IL MARATONETA

IL MARATONETA

 

Samuele e la sua grande passione: la corsa.

Aveva cominciato a correre da ragazzino perché era… sovrappeso? cicciottello? grasso, senza tanti giri di parole era grasso e il suo cuore ancora in fase di sviluppo non aveva posto per espandersi, allora il dottore gli aveva consigliato, anzi imposto, di dimagrire.

mara2Poteva farlo con una dieta ferrea, o facendo del moto oppure combinando le due cose.

Doveva necessariamente scegliere uno sport dove si faticasse aerobicamente e a lungo: nuoto, oppure ciclismo o corsa: lui optò per quest’ultima.

Erano tre figli, il padre era un operaio e di soldi che giravano in casa non ce n’erano molti: per correre basta un paio di scarpe e di calzoncini, non ci vuole una bicicletta da centinaia di euro, né il costo degli ingressi in piscina: la corsa, bella, salutare, gratuita.

Ma che fatica le prime volte!

Arrivava alla fine del percorso che si era prefisso di fare col cuore che sembrava impazzito, la milza trafitta da decine di immaginari coltelli, il fiato corto e le gambe rigide che gli avrebbero fatto male per giorni.

Ma poi, col passare del tempo, con l’entrare in forma e senza doversi più portare appresso tutti quei chili di troppo, la lunghezza del percorso cresceva e la fatica diminuiva.

E mano a mano che fatica e dolori scemavano, il loro posto veniva preso dal piacere di correre.

I medici dicono che sono le endorfine che il nostro corpo produce durante lo sforzo: rendono più allegri e anestetizzano i doloretti piccoli e grandi.

Inizialmente andava ai giardinetti vicino a casa, dove c’era una specie di pista che li circondava, circa trecento metri a giro, cosicché era facile aumentare, di volta in volta, il numero di questi e calcolare distanza, tempi e velocità.

Quando Samuele aveva perso già una decina di chili di quel grasso che lo opprimeva, quando aveva scoperto il piacere, e non solo la sofferenza, della corsa, gli venne anche il desiderio di confrontarsi correndo.

Scoprì che ogni domenica c’erano decine di corse cosiddette “non competitive”, che non lo erano solo nominalmente, visto che c’erano premi per i primi classificati e gli dissero che c’era un mensile col calendario di mara1queste, anche se poi ad ognuna di esse veniva riempito di volantini che pubblicizzavano quelle successive.

Comunque fosse, competitive o meno che fossero, bisognava confrontarsi con gli altri, gente di ogni età che, però, a volte era più che allenata: bastava, infatti, vivere in un paese e, dopo la scuola, dopo il lavoro o dopo le faccende domestiche per ragazzi, uomini e donne magari in pensione, bastava uscire di casa per essere in mezzo ai campi a correre con aria sicuramente migliore di quella che si respira in città.

Ed allora c’è il concorrente davanti, magari un ragazzino dodicenne praticamente senza peso, con lo scheletro ancora in formazione, oppure un settantenne con nelle gambe migliaia di chilometri di allenamento ed esperienza e ti scatta quella voglia di andarlo a prendere, magari di fare una volata della quale poi ci si vergognerà, perché non c’è gloria né a battere i più “deboli”, né ad essere battuti da essi anche se poi, magari, sono più deboli solo all’apparenza.

Concorrenti davanti o meno, c’è comunque la competizione con se stessi: un tempo da abbassare, una fitta al fianco da ignorare, denti da stringere.

Ed allora ogni settimana Samuele si faceva accompagnare da un assonnato e sbuffante padre alle corse domenicali, ma poi compì i diciott’anni e prese la patente, ebbe la sua prima auto usata ed allora cominciò ad andare da solo, magari in paesini dei quali non sospettava neppure l’esistenza, perdendosi, dovendo chiedere la strada, a volte arrivando all’ultimo momento.

C’erano corse dove il percorso era anche molto bello: stradine fra i campi, lungo i canali, tanto verde, aria buona, ma un podista non vede nulla, solo l’asfalto o lo sterrato su cui corre, le buche e i sassi da evitare e alza la testa unicamente per intravedere la linea del traguardo.

La corsa è così, come un buon film: non vedi l’ora che finisca, ma poi, quando è terminata, ti manca e vorresti ripartire, se solo ce la facessi ancora…

Oramai il peso di Samuele non era più un problema: faceva trenta, trentacinque corse all’anno, con un allenamento che migliorava le prestazioni di volta in volta, anche se c’erano sempre quelli che non riusciva a battere: bravi lo possono diventare tutti, ma campioni si nasce, forse è una questione di articolazioni, di rapporti matematici fra i muscoli e le ossa, di sfruttamento delle energie da parte dell’organismo, a volte, magari, anche di cervello.

Ma il vero avversario per Samuele, che amava oramai alla follia quell’attività fisica, era quell’ombra appena un metro davanti a lui: se stesso, da migliorare, da andare a prendere, da battere.

Poi, un giorno, l’ex bambino grasso scoprì che i dieci, i quindici, i venti chilometri non gli bastavano più: per confrontarsi con se stesso doveva puntare al massimo: la maratona.

E i quarantadue chilometri e centonovantacinque metri non sono mai non competitivi: ti iscrivono, a volte a caro prezzo, solo se fai parte di una società, se hai un certificato medico che dimostri che non ti verrà un accidente a metà gara, inguaiando gli organizzatori.

Certo, per quella distanza, non bastavano più i giri da trecento metri l’uno dei giardinetti vicino a casa, occorreva fare almeno trenta chilometri al giorno e poi scordarsi tutte quelle gare all’anno, anche solo dieci erano troppe: un bravo maratoneta di competizioni agonistiche non può farne più di quattro o cinque all’anno, perché il consumo energetico è enorme e il recupero per l’organismo è lungo.

E Samuele faceva tutti gli allenamenti necessari e le sue cinque, a volte sei, maratone all’anno.

Quelli bravi, quelli da olimpiadi, ci mettono pochi minuti più delle due ore a terminare la gara; un buon amatore ce ne mette tre di ore: lui era sulle tre ore e mezza nel suo periodo migliore, sì, perché col passare degli anni i suoi tempi miglioravano, ma poi, dopo quando? dopo i  trentacinque, dopo i quarant’anni, i suoi tempi cominciarono inesorabilmente ad alzarsi.

È il declino, temuto da ogni atleta, soprattutto di chi ha chiesto così tanto al proprio fisico, ma a lui non importava: lui era sempre stato un mediocre, mai in prima fila né alla partenza, né all’arrivo, solo era un lottatore, con quella sua immagine vista da dietro che lo precedeva sempre un metro avanti.

cadutoPassarono anche i quaranta, cambiò decina, era vecchio, troppo per la maratona, ma lui non voleva smettere: era la sua passione, era la sua vita.

Una volta cadde e si fece male a un ginocchio: fu la prima gara che non riuscì a finire.

Poi il ginocchio guarì, ma furono altre le occasioni in cui si dovette fermare: colpa del trentesimo chilometro, quel maledetto muro che, o lo scavalchi, o ti ferma.

Venne il momento in cui, anche su consiglio del suo medico, dovette decidere di smettere, magari non del tutto, magari tornando ai cinque, dieci chilometri delle non competitive.

Ed allora decise per un’ultima maratona, quella in cui avrebbe dato tutto, quella da finire ad ogni costo, magari gli sarebbe piaciuto tornare anche  sotto le quattro ore di percorrenza.

Erano una settantina alla partenza: lui, con i suoi cinquantotto anni era il più anziano; poi ci fu lo sparo e subito lo staccarono tutti, ma lui voleva dosare le proprie forze, tanto sapeva che qualcuno dei più inesperti l’avrebbe trovato per strada con la lingua di fuori, dopo quella sparata iniziale.

Venne il cartello dei dieci chilometri, dei venti, dei venticinque; qualcuno, come previsto, si era ritirato, era fermo al lato della strada, magari piegato in due a vomitare l’anima.

Era gente più giovane di lui e lui, invece, era ancora lì, in gara.

Guardò l’orologio: i primi dovevano già essere arrivati e lui doveva ancora arrivare al “muro”,  al fatidico trentesimo chilometro.

Strinse ancora di più i denti, finse di ignorare la fitta al fianco, le gambe che parevano essere state improvvisamente ingessate, quell’unico momento in cui, per un attimo, vide tutto nero e li passò i trenta, giunse ai trentacinque, poi inciampò, cadde e picchiò di nuovo il ginocchio.

Qualcuno si avvicinò per aiutarlo, ma lui non voleva fare il Dorando Pietri della situazione: rifiutò l’aiuto, si rialzò a fatica, fece alcune decine di metri camminando, poi riprovò a correre col ginocchio che sanguinava.

Non erano più le sue gambe, i suoi piedi a farlo, neppure la sua testa che gli diceva, ragionevolmente: “Fermati, chi te lo fa fare” era il suo cuore a spingerlo, il suo amore, il ricordo di un avita vissuta guardando la strada, mai il cielo.

L’orologio diceva quattro ore e quarantacinque; lui non voleva più neppure guardare i cartelli con le indicazioni dei chilometri, quelli percorsi e quelli mancanti.

La luce scemava, sull’altro lato della strada, al di là del nastro colorato che proteggeva il percorso, vide gli spettatori andare via, esaltati dallo spettacolo dei vincitori, incuranti di lui ed all’improvviso fu solo, il ginocchio sanguinante, correva tutto storto, anche se correre è una parola grossa.

Era vicino alle sei ore, ma era l’ultima maratona e quel fantasma là davanti a lui l’aveva quasi preso, oramai.

Poi finalmente vide la linea del traguardo: lo striscione l’avevano già tolto, non c’era più il pubblico, ma gli altri DSCN1904concorrenti sì, erano tutti là, in doppia fila, ad incitarlo, ad applaudirlo, il primo come il ventesimo e il penultimo, quello che, comunque, era arrivato da un’ora e mezza.

Una maratona finisce solo quando l’ultimo concorrente taglia il traguardo e lui lo tagliò e tutti urlavano, applaudivano come se fosse stato lui a vincere.

Dopo che ebbe tagliato la linea del traguardo, dietro di lui comparve, nella sera, la sua ombra e Samuele capì di aver finalmente vinto la sua gara.

 

 
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Pubblicato da su giugno 9, 2013 in Racconti

 

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