UN VASETTO DI OLIVE
Massimiliano, superata la pubertà, la giovinezza, avviato verso un’età adulta che in un attimo ti trascina al declino, aveva cominciato a correre.
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Da ragazzo aveva praticato basket a scuola, alle medie, ma poi per continuare gli mancava l’altezza; allora si era dato al tennis, così, senza avere mai preso una sola lezione e senza fare tornei, solo partite fra amici.
A Massimiliano piaceva fare sport, non per agonismo, non per questioni di linea, anche se mantenerla non guastava, pur sapendo che poi, quando smetti, il sovrappeso ritorna con gli interessi: gli piaceva semplicemente per il piacere di farlo, perché lo faceva sentire vivo, per l’adrenalina, le endorfine e quelle cose lì… e poi perché gli dava modo di stare con gli amici.
Già, gli amici: poi loro a uno ad uno passano, se ne vanno insieme con le età della vita; quelli delle scuole medie spariscono dopo l’esame di terza, quelli delle superiori dopo la maturità, i colleghi lo fanno se cambi posto di lavoro e ad un certo punto ti ritrovi da solo, perché avviandosi verso il tramonto diventa sempre più difficile stringere nuove amicizie, a meno che non inizi a frequentare circoli per anziani, ma a chi piace specchiarsi nei problemi, nei dolori, nel tramonto degli altri, sentire parlare solo di pillole e acciacchi? Massimiliano era sempre stato, per carattere, un tipo tranquillo, eppure quante ne aveva combinate anche lui ai tempi degli amici, quante mattane, zingarate, pazzie!
Poi tutto questo passa e lascia qualche ricordo e tanti rimpianti. Adesso che non era più un giovanotto gli serviva uno sport che si potesse fare da soli, senza una squadra insieme o senza avversari diretti e che avesse anche costi contenuti, perché lui non aveva molte possibilità economiche.
Gli venne in mente, così, la corsa, quelle cosiddette marce non competitive che in realtà competitive lo sono, lo sono perché spesso vengono premiati i primi o perché, comunque, si compete sempre contro se stessi, contro i propri limiti, si vuole andare a prendere quello che è lì davanti a te venti metri.
Di queste marce ce n’erano decine ogni domenica, in città e nell’immediata provincia, se ne trovavano dai cinque chilometri fino anche a trenta, se uno aveva l’allenamento e le gambe: lui aveva scelto quelle da cinque, sei, massimo otto chilometri, proprio perché conosceva i propri limiti.
Contrariamente a chi abita fuori città, verso la campagna – rientro dal lavoro, calzoncini e scarpette e via per campi e sentieri – lui vivendo in città non aveva tempo e modi di allenarsi: le marce domenicali erano allenamento e gara allo stesso tempo.
Dopo le prime corse stagionali i tempi miglioravano, le gambe non facevano più male, il fiato non mancava più; riusciva persino a sprintare nelle ultime decine di metri, magari contro nessuno, magari contro se stesso.
E si sentiva bene: lui, come detto, non sapeva quelle cose mediche delle endorfine o altro, sapeva solo che stava bene quando correva, che dimenticava i dispiaceri, le preoccupazioni, che solo allora si sentiva vivo, quando correva.
Poi a casa, una doccia, l’abbigliamento ad asciugare prima di metterlo a lavare e stava bene tutto il giorno, almeno per quel giorno. Corse per dieci anni: centinaia di corse, qualche migliaio di chilometri accumulati nelle gambe, un vecchio quaderno con scritto luogo, data, distanza e tempo.
Col tempo, però, il suo fisico cominciò a dare segni di cedimento: non ce la faceva più a correre, a malincuore smise, s’intristì, si rifece viva la sua cronica depressione, ma lo sport gli aveva insegnato a non demordere, a lottare ed allora fece esami, si curò, migliorò, se non lo spirito, almeno il corpo: forse adesso poteva ritornare anche a correre.
Ricominciò da un parco giochi vicino a casa: intorno alle altalene per bambini, al campo da basket sempre occupato da filippini fanatici di questo sport, loro che non sono certo un popolo di giganti, anzi come si dice a Milano sono alti un metro e un biglietto del tram, c’era una specie di pista che girava tutto intorno, trecento metri in totale e ci si poteva gestire, cominciare con due giri, poi tre, otto, dieci, tredici, quindici col proprio passo, senza nessuna animosità, senza competizione.
Così quando le gambe ricominciarono a girare, Massimiliano riprovò con una corsetta da cinque chilometri in provincia, col cuore in gola, la paura di non farcela, che ritornassero quei dolori, le palpitazioni, le difficoltà di respiro.
Era un non competitiva… con classifica dei primi dieci ed erano un paio di centinaia a partecipare, dagli otto anni ai quasi novanta, gente che correva tre, quattro volte la settimana, oltre alla domenica: lo staccarono subito, ma lui andò avanti del suo passo.
Una volta un vecchio marpione esperto e fanatico di quel tipo di corse gli aveva rivelato una sacrosanta verità: “Quelli che al via schizzano come proiettili, lasciali andare: se sono veramente più forti, inutile seguirli, tenerne il passo o ti faranno schiattare; se la loro è solo una sparata iniziale li ritroverai più avanti con la lingua di fuori e la mano sulla milza”.
Questi, però, non li avrebbe ritrovati per strada, non erano loro ad andare troppo forte, ma era lui che andava troppo piano, ma questo era il passo che poteva mantenere, che la sua età e la sua salute gli consentivano.
Quando arrivò al traguardo, molti minuti dopo gli altri, stavano già smontando la zona premiazioni; qualcuno lo applaudì comunque, perché chi finisce una corsa ha vinto in ogni caso, ma restava il fatto che lui era arrivato ultimo.
Non se la prese, perché anche alle olimpiadi, ai mondiali, nella maratona, nel mezzofondo, nella marcia, ci deve essere un ultimo arrivato, perfino fra gente selezionata per le olimpiadi: stavolta era toccato a lui, non era un disonore e se avesse continuato con le corse, probabilmente, non sarebbe stata neppure la sola volta che sarebbe arrivato dopo tutti gli altri.
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Erano pochi gli sfizi che Massimiliano poteva permettersi: un po’ per la pensione minima, un po’ per la salute, un po’ perché se lo era imposto, ma un giorno prese al supermercato un vasetto di olive: aveva voglia di metterle sulla pizza surgelata da poco prezzo, poco sapore e poca sostanza che teneva sempre in freezer e che ogni tanto cuoceva in quel maledetto forno che più che altro bruciava i cibi invece di cuocerli
Una sera gli venne una di quelle voglie di uno spuntino notturno prima di coricarsi: un cracker, anzi due, un pezzetto di formaggio e… ma sì, perché no: due olive dal barattolo di vetro che stava nella credenza.
Nel vasetto ne erano rimaste quattro a galleggiare nella salamoia, ultime sopravvissute alle pizze surgelate alle quali avevano dato, almeno, un po’ di varietà: tanto valeva a quel punto finire il vasetto, vuotare la salamoia, lavarlo e poi gettarlo nel sacchetto del riciclo del vetro.
Pescò la prima oliva denocciolata, poi la seconda, la terza e ne rimase alla fine una, l’ultima, senza nessun demerito, poveretta, era una oliva identica alle altre, ma era rimasta l’ultima solo perché un ultimo o un’ultima ci deve sempre essere in ogni campo (era così anche nella minestra con i piselli: c’era sempre un ultimo pisello a nuotare solitario nel brodo).
Allora se uno va a correre, anche se la corsa non è competitiva, ma ha una classifica, può capitare che arrivi ultimo, ma senza colpe o ignominie, solo perché il destino a volte gira così e lascia indietro un’ultima oliva, un ultimo pisello, un ultimo concorrente e tutto finisce solo dopo di loro.