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GENTE CHE VA, GENTE CHE VIENE

GENTE CHE VA, GENTE CHE VIENE

Gente che va, gente che viene e mai niente di nuovo“, diceva un vecchio film.
Lo diceva una matura ospite del lussuoso albergo dove era ambientato il film, o meglio dove erano ambientate le vicende dei personaggi che vi soggiornavano: lo diceva due volte, all’inizio e alla fine del film.

 

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* * *

Anche il famoso lago dei frati era un po’ così: c’era gente che veniva, stava una stagione, magari qualcuna di più, poi spariva e ne arrivava altra.
Era stato così anche per i gestori succedutisi in… quanti anni? Venti? Trenta?
C’era, forse, uno solo dei frequentatori che se lo ricordava: c’è sempre ed ovunque una memoria storica.
Lui ricordava una signora che rimase un solo anno a gestire il lago da sola, col figlio di una decina d’anni, cicciotello anziché no, che ogni mezz’ora gridava: “Mamma, panino!” dall’altra parte del lago e lei gli scaldava un panino pre-confezionato e glielo portava, ma così da sola, col figlio pantagruelico, non poteva gestire il lago e farlo fruttare a dovere.
Poi venne un’altra signora, il cui figlio gestiva un negozio di articoli per la pesca in un paese lì vicino.
100_0224Un tempo vi lavorava anche il marito, ma poi questi ebbe un ictus, rimase semi paralizzato e lei doveva badare a lui, al lago, seguire i figli che un po’ sottovalutavano il lavoro, come tutti i giovani.
Forse molti non se ne rendono conto, ma un lago per la pesca sportiva è un’attività abbastanza redditizia, ma bisogna seguirlo, farlo crescere, capire cosa vogliono i frequentatori, immettere spesso pesci nuovi, altrimenti sarebbe come gestire un negozio con gli scaffali semi – vuoti.
Anche la seconda signora, così, dovette abbandonare la gestione del laghetto ed andò a lavorare in un grande negozio di giocattoli.
Dopo di lei subentrò  una società di pesca che lo prese in gestione, ma più per uso personale che per farlo fruttare economicamente e c’era da pagare l’affitto al proprietario del terreno, la concessione dell’acqua, la corrente, i fornitori del bar annesso al lago, così anche questi durarono solo pochi anni.
Infine venne l’attuale gestore, che già aveva un altro lago a una trentina di chilometri da lì: lui sì sapeva come farlo funzionare: lo teneva, e tiene, pulito, immise nuovi pesci, almeno all’inizio e trote ogni ogni giorno portate da un camion dell’allevamento tutte le settimane.
Però che anche lui ora non riesce più a seguire due laghi e quello dei frati l’ha affidato a un dipendente, un parente acquisito che, forse, presto se ne andrà a fare un altro lavoro che più lo attira: gente che va, gente che viene…

* * *

Anche e soprattutto fra i frequentatori c’è un ricambio continuo: i bambini diventano ragazzi e seguono la scia dei ferormoni femminili, i ragazzi diventano uomini e c’è la famiglia, il lavoro, gli uomini di trent’anni fa ora sono anziani e con problemi di salute e i vecchi… quelli sono andati a pescare nelle grandi praterie.
Forse il più longevo, dal punto di vista della frequentazione del lago, era stato Tony: a parte la “memoria storica” del lago, lui era il solo ad avere visto tutte le gestioni succedutesi, poi l’età e la salute lo avevano vinto: basta mostri giganti, ora ha ripreso ad andare a pesca sul lago, ma a Sesto Calende, oppure a Lecco, specchi d’acqua vicini a casa sua, su al nord.
Arriva, tira fuori dal bagagliaio dell’automobile una comoda poltrona pieghevole, poi una leggerissima canna fissa (che una volta i garisti chiamavano “velocette”), innesca un bigattino e si dedica ad una tranquilla pesca alle arborelle, ma anche triotti, vaironi, pescetti, insomma, poco impegnativi fisicamente.
Ne pesca a sufficienza per una frittura, magari un po’ di più se ne ha promessi a qualche vicino di casa, poi raggiunto il numero arma letale 2prestabilito libera le catture successive, ma ad ogni abboccata, ad ogni sprofondare del minuscolo galleggiante, gli sembra che possa essere il “re del lago” o un altro “mostro” ed allora forse gli scappa una lacrima, ma forse sono i suoi occhi da vecchio, sì perché è dura invecchiare ed avere tanti ricordi di momenti che non possono ritornare.
Anche Pietro, il suo piccolo allievo, ora è un uomo ed anche lui segue quella scia misteriosa che lo porta dietro all’altro sesso.
Qualcuno dei vecchi frequentatori ha cambiato lago per cercare nuove prede, nuovi stimoli.
Il vecchio scorbutico e permaloso Leopoldo dopo una insulsa lite col proprietario, ora va in mare, sul porto a pescare orate, serra, rondinini, almeno così dice lui…
I piccoli, la banda dei ragazzini terribili, che fine ha fatto? I gemelli napoletani, i ragazzi che liberavano i pesci nel fosso d’uscita dal lago, per poi andarli a pescare là, in mezzo alla campagna, tranquilli e soprattutto senza pagare un ingresso, dove sono finiti, che fine hanno fatto?
Quella di tutti i ragazzi che… non sono più ragazzi, ma uomini: fidanzati, sposati, lontani per lavoro, il calcetto il giovedì, in pizzeria il sabato o forse si sono solo stancati della pesca, ma forse fra qualche anno li vedremo portare i figli al laghetto ed insegnare loro tecniche che per allora saranno superate.
Neppure Sebastiano frequenta più il lago dei frati: dopo la vicenda di Fabio non ne ha più avuto il cuore: ad ogni storione che allamava gli sembrava di sentire la risata di felicità e i commenti del suo piccolo amico ed allora si metteva a piangere e, via, non è dignitoso per un uomo maturo, così, in mezzo a tutti!
Cosa faccia ora, come passi i suoi pomeriggi estivi, non è dato saperlo: ci sono tante cose da fare… magari dopo ferragosto andrà a funghi, così, tanto per dirne una, per fare un’ipotesi: in fondo la pesca come la raccolta di funghi sono spesso un pretesto per stare nella natura.
Fra i nuovi frequentatori, oh sì, perché il lago c’è sempre, lì, immutabile, seppure con un nuovo uomo di fiducia del proprietario 100_0591(che non molla), seppure con un nuovo pubblico, ci sono nuovi utenti, nuovi personaggi, nuovi ragazzini che hanno raggiunto l’età per dedicarsi con impegno alla pesca, ma non ancora alle coetanee, nuovi uomini che prima chissà che diavolo facevano, fra questi, dicevamo, c’è Antonio, che come nome è un po’ come Toni, dunque un ciclo che si chiude o che ritorna.
Antonio è stato denominato “lo sperimentatore”.
Va detto che è un bravo pescatore, tanto che un giorno sull’Adda all’uscita dal lago di Como si trovò a pescare accanto a un ex campione del mondo e ne ricevette i complimenti, tanto più che aveva preso più pesci di lui, eppure qui non riesce mai a primeggiare.
Ci sono giorni che le abboccate sono scarse, altri che i pesci “ci danno”, ma non ci rimangono ed allora altri, che a suo giudizio non sono dei campioni, prendono più pesci di lui, prendono i giganti che a lui mancano.
Sarà che fanno un tipo di pesca diverso, con fili più sottili ed invisibili, fili che lui non può permettersi perché carissimi e così lui pesca “pesante”, ma i pesci in un ambiente così chiuso sono stati tutto più o meno catturati o punti ed allora sono diventati sospettosi e smaliziati, ma lui non molla e pesca come ha sempre pescato e pensa che meriterebbe di più, più di altri che dalla loro hanno solo l’attrezzatura più sofisticata e la pazienza, magari, di rifare più lenze strappate in un giorno.
Non è invidia, la sua, neppure la voglia di primeggiare, di battere gli altri, ma di battere se stesso, di cercare i propri limiti di battere i propri record (tutti i pescatori ne hanno: il pesce più grosso, il maggior peso in un giorno, in una stagione ecc).
Ed allora Antonio cerca di sperimentare le idee che gli frullano per la testa, soprattutto di notte, al buio, in attesa di un sonno che a volte è in ritardo come una bella donna.
Va detto che lui è uno che legge molto e che guarda in televisione i programmi sulla pesca e poi rielabora, memorizza, prova, sperimenta.
Era così con il formaggio; gli storioni abboccano a quello, ma i formaggini di una certa marca sono cari, poi col caldo si zoom_aglio (800x600)sciolgono e non tengono sull’amo, così ha provato diverse qualità, fra quelle a prezzo abbordabile ed ha trovato il giusto compromesso.
Ma ancora non gli basta: ci vorrebbe un’esca assoluta, che li faccia impazzire.
Aveva letto che gli amur, i cosiddetti cavedani ungheresi, impazziscono per l’aglio e lì, nel lago dei frati, non ci sono amur, ma carpe e storioni e questi hanno dei bargigli che hanno funzione sensoriale perché questi sono pesci che si nutrono sul fondo e vanno ad olfatto ed allora perché non provare con l’aglio? Male che vada se non altro terrà a distanza altri pescatori troppo invadenti e gli concederà una sorta di zona di quarantena.
Così ha provato ed ha scoperto che l’aglio funziona, ma poi ci sono stati ancora un paio dei suoi “nemici”, nel senso di competitori, che lo hanno battuto, che si vantano di aver preso in un solo giorno un numero spropositato di pesci.
Ma se ora il problema non è il numero di abboccate, ma di catture ad ognuna di esse, ci deve essere un problema di sensibilità al pittare del pesce.
Già, pittare: glielo avevano insegnato al mare quel termine.
Quando andava in Liguria ed andava a pescare a bolentino, usava una piccola canna per il recupero dei settanta e più metri di filo, ma per sentire le abboccate teneva il filo in mano, visto che il dito è più sensibile della canna.
E allora, via, si prova anche quella.
100_0586Antonio lancia la lenza, poi tende il filo, ma non troppo, perché i pesci non devono sentire resistenza quando mangiano, quindi appoggia la canna e regge il filo fra pollice e indice ed allora sì che è un piacere sentire anche il più piccolo movimento: è un po’ come avere i pesci al… telefono.
Certo ci è voluto un po’ per trovare il modo e il momento per passare dalla ferrata a mano al recupero, ma del resto lui è lo sperimentatore…
E così alla fine ci è riuscito: cinquanta prede in un pomeriggio!
Forse non è il record del lago, ma è il suo obbiettivo: ogni lancio un’abboccata ed ogni abboccata un pesce recuperato: meglio di così…
Si potrebbe dire la pescata perfetta, ma magari la prossima volta non sarà più così.

* * *

Ora che Antonio, lo sperimentatore, ha raggiunto il suo scopo: che cosa farà? Continuerà a prendere trenta, quaranta o più pesci per volta o si dedicherà ad altro. Ad altre sperimentazioni?
Forse cambierà lago, cambierà ambiente, magari andrà in mare oppure…
Gli hanno detto che c’è un altro laghetto a pagamento a un’ottantina di chilometri da lì dove ci sono certi bestioni: pesci gatto africani di oltre venti chili, storioni di trenta, quaranta chili, carpe da record.
Occorrerà sperimentare nuove attrezzature, trovarle possibilmente in qualche mercatino dell’usato, scoprire il filo giusto come calibro, la giusta misura di amo.
Certo ottanta chilometri sono tanti, la spesa, compresa la benzina, comincia a diventare importante per uno che, come molti, è 1376344_10200756220414339_2098308693_nvittima della crisi, che rosica il centesimo per pagare bollette e condominio e per campare, ma magari una volta ogni quindici giorni…
Certo che oramai un’altra estate è passata, un’altra stagione di vacanze e di pesca: magari il prossimo anno.
Chissà se fra dieci mesi ci sarà ancora Antonio, ci saranno ancora i due adorabili bambini francesi che lo tormentavano per farsi legare gli ami, se ci saranno ancora i suoi nemici sconfitti, se ciò che lui ha sperimentato e scoperto sarà di utilità ad altri che lo vorranno copiare.
Chissà…
Gente che va, gente che viene e mai nulla di nuovo.

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Pubblicato da su settembre 22, 2014 in racconti pesca

 

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SFIDA FINALE AL RE

SFIDA FINALE AL RE

Quanto tempo era passato dal giorno del primo ed unico incontro di Tony con la grossa carpa del lago dei frati? Sicuramente tanto, troppo, con infiniti eventi che si erano verificati, con persone che erano arrivate e passate come passeggeri in una stazione ferroviaria.

Se n’erano andati anche un po’ dei capelli di Tony, mentre altri si erano incanutiti: insomma, gli anni erano passati inesorabilmente, con quella velocità che segue la legge di gravitazione universale, per cui quando si ha scollinato la mezza età e si è nella fase discendente della propria esistenza, questa aumenta con la progressione del quadrato e ci si ritrova ad aver sempre meno tempo per le cose da fare e sempre più rimpianti per non averle fatte nel tempo giusto.

Nonostante questi malinconici, quanto dovuti bilanci, Tony rimpiangeva ben poco: in fondo la sua vita non era stata poi così malvagia.

È vero che non si era fatto una famiglia, ma aveva dei parenti che si preoccupavano per lui, e aveva degli amici sinceri, e questa è una cosa che non tutti possono vantare.

Aveva superato bene, anche grazie al suo hobby, la pesca, il male oscuro, il dolore di vivere ed ora affrontava sereno la discesa finale, senza paure e senza troppi rimpianti.

Tutto sommato aveva ancora il suo lavoro e il tempo della pensione era di là da venire, quindi si sentiva attivo.

Per ciò che riguardava la pesca, poteva vantare prede che pochi fra coloro che condividono il suo sport possono annoverare fra le loro catture: lo strogovic (o come diavolo si chiama: non lo aveva ancora capito), la trota di montagna, seppure incompleta come cattura, visto che era stato aiutato dai suoi compagni d’avventura nel recupero, come incompleta era stata la cattura del re del lago, che, anzi, non c’era proprio stata, ma il tutto era stato ampiamente compensato dai 32,750 kg della sua preda sarda, però… Però non gli bruciava tanto la mezza sconfitta con la trota, quanto quella piena rimediata nel “suo” lago.

Erano passati alcuni anni, durante i quali in quel buco d’acqua azzurra aveva salpato, liberato e risalpato decine di quintali di carpe, con una media fra i quattro e i cinque quintali a stagione (in effetti, in un mese, vale a dire in una sola dozzina di volte, non in un intero anno); aveva catturato anche delle belle prede: sei, sette, nove chili ciascuna, visto che oramai era veramente esperto e ben attrezzato, ma della sua mitica avversaria non c’era più stata traccia.

Né lui, né altri ne avevano mai più avuto notizie, abboccate o avvistamenti.

Era, però, sicuro che adesso se si fossero scontrati di nuovo, le cose sarebbero andate in modo diverso: aveva un’altra attrezzatura, rispetto alla prima volta, ma soprattutto si era fatto, sulle proprie spalle, ben altra esperienza ed aveva imparato anche l’astuzia dalle sue “vittime”: al tempo della prima lotta col re aveva entusiasmo, coraggio e un po’ d’incoscienza, mentre ora aveva combattuto alla pari con altri mostri ed aveva scoperto e corretto molti dei propri errori.

È sempre così: l’età compensa il degrado di molte doti con una sola, ma importante: l’esperienza, appunto.

Tony, al momento di partire per le vacanze, aveva caricato, come sempre, la sua utilitaria fino all’inverosimile: con gli anni erano passate anche le vetture, ma lui era rimasto fedele alle auto piccole, economiche e maneggevoli che, però, sacrificano alla praticità lo spazio.

Era l’inizio della seconda settimana di luglio ed era tempo di partenza per la sua meta consueta.

I nipoti, i parenti, gli amici, lo attendevano, anch’essi con qualche anno di più e con nuove cose da raccontare.

Già da tempo Tony aveva programmato questa ennesima estate, ed aveva in progetto di lanciare anche un nuovo guanto di sfida al re, re temporaneo, perché lui non era disposto a lasciargli lo scettro ed intendeva ripetere al più presto la loro battaglia incruenta per stabilire definitivamente chi fosse il dominante di quell’ambiente.

Certo, era indispensabile che l’altro raccogliesse quel guanto simbolico: in fondo parliamo di un pesce, non di un essere raziocinante.

Ma lui aveva umanizzato l’animale ed era quasi certo che si sarebbero rincontrati e che questi avrebbe accettato la sfida solo quando lui si fosse portato al suo livello, quando il pesce l’avesse reputato degno di lui; ora aveva acquisito tutte le malizie del vero pescatore e la carpa doveva saperlo: era giunto finalmente il momento di dare l’assalto e lo scacco finale al re, finalmente con una sfida alla pari! Per mesi Tony aveva curato in modo quasi maniacale la propria attrezzatura: aveva eliminato la parte di filo del mulinello che aveva perso di elasticità, aveva cambiato amo al finale, sostituendolo con un altro che, più che in un negozio di caccia – pesca, sembrava essere stato acquistato in una gioielleria, sia per la fattura che per il prezzo.

Aveva anche piano, piano, accumulato chili di pastura e di esche di quelle da carp-fishing, esche apposite con aggiunta di ormoni e sostanze dall’aroma tanto irresistibile per un pesce, quanto ributtante per un uomo.

Dall’avventura in Sardegna gli erano rimaste diverse novità tecnologiche, alle quali si era di recente aggiunto perfino un piccolo ecoscandaglio.

I rapporti col proprietario del lago erano buoni da sempre e rinsaldati da anni di conoscenza, per questo Tony si azzardò a chiedergli di lasciargli usare la barca con la quale, quotidianamente, l’uomo raggiungeva la gabbia posta in mezzo al lago dove erano tenute le trote da rilasciare per la felicità di coloro che non si sentono soddisfatti se non portano a casa il pescato, salvo poi non sapere a chi darlo, oppure ritengono di dovere a tutti i costi recuperare in qualche modo il costo del biglietto d’ingresso, non accontentandosi del semplice divertimento, del sole, della natura che venivano loro offerti ad un prezzo, tutto sommato, modesto, simile a quello di un ingresso al cinema.

L’uomo acconsentì alla sua richiesta, raccomandandogli, però, di stare attento a non cappottarsi con quel guscio minuscolo e instabile nelle fredde acque del lago; si trattava solo, comunque, di pochi minuti: il tempo di fare il giro del bacino ed individuare con lo scandaglio le zone più profonde, gli ostacoli invisibili, l’ambiente migliore e i branchi di pesci.

Fatto ciò, Tony si era fatto una mappa mentale del fondale, che a casa avrebbe riportata su carta e sapeva ora dove poter insidiare il suo avversario, dove era più probabile che questo si nascondesse.

Tanto per verificare l’esattezza dei dati rilevati, provò un giorno a dedicarsi alla pesca allo storione, del quale c’erano nel lago una manciata di esemplari; innescato un formaggino di quelli a triangolo che si danno ai bambini, ebbe quasi subito l’abboccata e recuperò un esemplare di circa nove chili: non male in assoluto, ma piccolo per quella specie di pesce.

Un altro giorno provò, innescando un pesciolino vivo, ad adescare uno dei rari lucci che vivevano ai margini del canneto che si trovava in testa al lago: anche qui ebbe presto un riscontro positivo e recuperò, per poi liberarlo con tutte le cautele, ma solo dopo la foto di rito, un discreto esemplare sui sette chilogrammi.

Basta esperimenti: la mappatura che aveva fatto del fondale e delle sue presenze si era rivelata esatta ed era il momento di sferrare l’attacco al trono del re.

Tony aveva bisogno di tranquillità così, s’accordò col proprietario, la prima mattina in cui il lago era chiuso, ma l’uomo aveva dei lavori da farvi, quali rasare l’erba, si presentò di buonora, pagò e si mise in azione.

Come prima operazione lanciò una dose cospicua di palline di pastura, che poi erano le stesse che avrebbe adoperato come esca, usando uno dei metodi appresi dalla visione di un DVD sul carp–fishing: si adoperava un tubo ricurvo di circa un metro di lunghezza, dove si inseriva la pastura e poi , con un movimento semicircolare del braccio, dal basso dietro le spalle, fino alla direzione voluta, si lanciavano le stesse e, con un po’ di pratica si otteneva un’incredibile distanza e precisione.

Nel filmato alcuni pescatori usavano anche un enorme cucchiaio di plastica della stessa lunghezza del tubo, ma Tony preferiva il primo metodo che era più sicuro e non faceva sprecare pastura.

Fatta questa prima operazione, il pescatore lanciò sulla zona dove aveva pasturato, sempre seguendo il rituale imparato dal video, un segnalatore visivo che lo aiutasse a indirizzare i suoi lanci con precisione sul luogo dove stava agendo la pastura. Finalmente era pronto: innescò sulla montatura alcune boiles, le palline di esca, disposte, come aveva appreso dalle riviste “ad omino di neve” e mirò verso il segnale.

Adesso si trattava solamente di aspettare.

Aveva scelto di montare sia un galleggiante che un campanello, per essere certo di non perdere alcuna abboccata.

Ben presto il campanello trillò, il galleggiante affondò e Tony ferrò e recuperò una carpa di circa otto chili, che neppure perse tempo a fotografare: non era lei quel giorno il suo obiettivo.

Poi per tre ora nulla, o quasi: solo un paio di colpetti al galleggiante, una vibrazione del campanello, poi più nulla.

Pensò, anzi, ne era quasi certo, che la carpa lo stesse studiando, quasi provocando, poi si rese conto che ancora una volta stava umanizzando un po’ troppo quello che era solo un animale con l’intelligenza e i pensieri di questo. L’unico vantaggio, forse, della sua avversaria rispetto alle altre carpe erano le sue dimensioni e non in quanto tali, ma come testimonianza della sua età.

Quell’esemplare poteva avere oltre venticinque anni, forse trenta e tutto ciò significa esperienza, anche per un pesce.

Ora, almeno in quello, erano pari: anche Tony pescava da oltre trent’anni, tanto era il tempo trascorso da quando aveva iniziato a divertirsi con la cannetta fissa di bambù comperata alla Upim da una madre sempre attenta ad accontentarlo nelle sue richieste. Poi ci fu una sequenza di diverse catture tutte oltre i cinque chili, ma non erano quelle a cui Tony mirava.

Adesso Bruno, il gestore, che aveva finito di falciare l’erba tutto intorno al lago, grazie all’aiuto di un mini-trattore tagliaerba, era arrivato alle sue spalle, in silenzio, come suo solito e come un bravo pescatore è abituato a fare; in tanti anni di gestione di laghetti per la pesca sportiva, mai aveva visto, in un’unica mattina, tante catture importanti, ma il fatto che il suo cliente “del nord” non si concedesse un attimo di tregua né per un caffé, né per una bibita o un panino, gli dava da pensare che quella mattinata particolare non fosse ancora finita ed avesse ben altro in serbo.

Nuovo trillo del campanello della canna e dopo una breve, quanto impari lotta, ecco apparire un amur, curioso pesce importato dall’est Europa a metà fra una carpa e un cavedano: doveva passare i dieci chili e sicuramente il metro e venti di lunghezza, ma Tony non perse neppure tempo a pesarlo o fotografarlo, cosa che faceva, invece, sempre con le grosse prede: quello era il giorno di un’altra sfida.

Questo voleva dire che l’obiettivo dell’uomo era un altro e che c’era un conto in sospeso.

Poi Bruno ricordò quella storia, che fino ad allora non aveva capito se fosse una leggenda o la realtà, che gli era stata riferita appena presa la gestione del lago, quella della lotta, risoltasi in favore del pesce e allora capì… Passò ancora mezz’ora dopo la cattura dell’amur e questa volta il campanello diede segno di vita in modo diverso: prima un trillo timido, poi silenzio, poi un altro trillo; allora Tony, con cautela smontò il segnalatore e prese la canna in mano.

La punta ora vibrava ad intervalli regolari. “Ora!”, gli gridò Bruno nella propria mente, ma non era ancora il momento, secondo Tony che, più che una canna in mano, pareva avesse un telefono collegato direttamente con le profondità del lago e con un interlocutore particolare all’altro capo. “Non è ancora ora – valutò Tony – sta assaggiando l’esca, ma sa benissimo che è una trappola ed è cauta, eppure gli ormoni e le essenze di frutta la fanno impazzire e non può fare a meno di succhiare l’esca e, prima o poi la ingoierà…”.

La canna vibrò nuovamente, ma stavolta con più violenza; “Ora!” gridarono all’unisono i due uomini e dall’altra parte l’amo d’acciaio si conficcò nello spesso labbro dell’animale.

Da questo momento cominciava la vera battaglia: fino ad ora erano state solo schermaglie strategiche, ma adesso entravano in gioco le forze fisiche e la lotta alla pari.

Recupero, rilascio, un po’ di filo in più, poi una nuova partenza, eppure a mano a mano uno, due giri di lenza si accumulavano sulla bobina del nuovo, capiente mulinello di Tony.

Dopo oltre un’ora di quello sfibrante tira e molla, a sette, otto metri dalla riva sulla quale era appostato Tony, comparve finalmente a galla la schiena del pesce: forse non pesava quanto la “big” della Sardegna, ma sicuramente da quelle parti nessuno aveva visto, né tanto meno catturato una carpa di quella taglia.

Ora il pesce vedeva l’uomo e sfoderava le forze residue; anche Tony era sfinito e le braccia avevano i muscoli che gli bruciavano.

Le mani avevano quasi perso di sensibilità, ma i metri diventavano cinque, poi di nuovo sei, poi quattro, poi sei, poi tre, poi due… A questo punto Bruno si affiancò a Tony col guadino in mano, come aveva fatto con lo strogovic, ma il pescatore lo fermò con un gesto del capo: “No, mi scusi, ma questa volta è una questione personale…”.

L’altro capì e poggiò il manico della rete allo steccato che separava la sponda dal lago.

Era finalmente finita: oramai il pesce non tirava più e si era messo in posizione verticale; Tony gli teneva la testa fuor d’acqua per fargli perdere gli ultimi residui di forze e l’animale sputava ritmicamente boccate d’acqua con stanchezza e rassegnazione alla sconfitta subita.

Tony sapeva benissimo che non poteva tenerlo in quella posizione troppo a lungo: in fin dei conti era un pesce anziano e lo stress della lotta, unito a quel principio di asfissia, avrebbe potuto essergli fatale, eppure Tony non poté fare a meno di guardarlo ancora un attimo negli occhi: vi vide il dolore, la sconfitta e, per un attimo, dimenticò la propria vittoria e gli vennero le lacrime agli occhi: ora la pesca, hobby o sport che fosse, gli sembrava così crudele, inutile, eppure era una lotta atavica ed era allo stesso tempo terribile e meravigliosa.

Fu un attimo, poi si asciugò gli occhi con la manica della maglietta, voltando la testa verso la spalla, visto che le mani erano entrambe occupate a reggere canna e guadino.

Allungò il guadino verso l’acqua e salpò il pesce, trascinandolo verso riva senza sollevarlo dal suo elemento.

Con delicatezza lo slamò, poi appese il guadino alla bilancina regalatagli da Gigi un’eternità di anni prima: il display elettronico segnava un bel 29, 900 kg! Senza neppure sollevare il fondo della rete dall’acqua, fotografò l’animale, poi lo carezzò con delicatezza, per non asportargli lo strato di muco protettivo, gli disse: “Vai!” e rovesciò la rete in acqua: in quel momento ancora una volta si trovò ad umanizzare il suo avversario e fu convinto che fra loro c’era qualcosa di speciale, un feeling che li univa pur se posti da parti opposte della canna da pesca.

L’animale s’allontanò con maestosa stanchezza e con la dignità dello sconfitto a cui è reso l’onore delle armi. Tony si voltò e cominciò a riporre i propri attrezzi: in quel momento gli parve che il suo passatempo estivo preferito non avrebbe più avuto uno scopo dopo quella vittoria, ma si sa, i pescatori hanno sempre mille risorse…

 
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Pubblicato da su ottobre 12, 2011 in racconti pesca

 

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BIG!

BIG!

Che cos’è la pesca?

Perché ci sono persone che spendono denaro, tempo ed energie per catturare un pesce che poi libereranno? Lo fanno solo per fare una foto o un filmato?

No, la pesca è una questione chimica, è un mediatore che si chiama adrenalina, che ti fa battere nuovamente il cuore, anche se da tempo questo non aveva più slanci, che ti fa scordare dolori fisici e morali, che ti ridesta l’attenzione e il pensiero, che ti fa concludere che tutto ciò che hai fatto o speso valeva la pena di essere fatto e speso, costi quel che costi in termine di denaro, di dolore alle braccia, alla schiena, all’addome, di ore di sonno perse.

È una cosa, quindi, che ti fa sentire vivo! E non si creda che questo sia una cosa da poco.

Toni si era ripreso, ripreso dal malore della montagna, dal male di vivere (anche in questo caso grazie all’adrenalina), e gli era ritornata la voglia di godere quanto, poco o tanto che fosse, restava della sua esistenza che, giocoforza, si accorciava anno dopo anno.

Gli era, ovviamente, tornata, grazie anche a quella piccola carpa, la prima della sua seconda vita, la voglia di pescare, di cimentarsi e di cercare di conoscere i propri limiti e, magari, di andare oltre questi.

Un giorno aveva visto, dal suo amico giornalaio, una rivista specializzata nella pesca alla carpa con annesso un DVD e l’aveva subito acquistata.

Gli articoli trattavano di una forma di particolare di pesca alla carpa, detta “carp-fishing”, che Toni conosceva solo per sentito dire, ma che mai aveva praticato o visto praticare.

Sia le foto dei servizi, che il filmato del DVD, ritraevano pesci enormi, grandi quanto e più di un bambino, animali che partivano da oltre venti chili fino ad arrivare al record del mondo per una carpa: 38,150 kg!

Anche se Toni era guarito, capì che quella sarebbe stata la medicina definitiva.

Però…

Però i pescatori delle foto e del film erano matti come cavalli: gente disposta a passare giorni e notti consecutivi (endurance, si chiama) in riva ad un fiume, ad una cava, ad un lago per, magari, una sola cattura, ma che cattura!

Non solo: questi erano muniti di canne e mulinelli appositi, di segnalatori acustici e luminosi di abboccate con trasmettitori verso una unità senza fili; addirittura possedevano barchini ultra leggeri per il recupero delle prede, muniti di ecoscandaglio che segnalava i fondali più adatti a quel tipo di pesca.

E poi tende, brandine, fornelli da campeggio, materassini e sacche apposite per trattare con cura le prede e rilasciarle così in perfetto stato di salute e, da ultimo, pasturavano con chili, talora decine di chili, di appositi impasti.

Il tutto richiedeva o uno sponsor, oppure essere benestanti, e Toni non era il secondo e non aveva i primi.

Era deluso, perché dopo quanto aveva visto, mai più lo avrebbero soddisfatto le prede di tre, quattro, cinque chili del suo laghetto: a questo punto, neppure la sua storica avversaria, forse, gli avrebbe dato soddisfazione.

Oltretutto i luoghi delle spettacolari catture dei servizi fotografici erano segreti e non in ogni corso d’acqua o stagno ci sono tali mostri.

Allora, però, Toni ricordò un amico di tanti anni prima…

L’uomo era un anziano pescatore con il quale Toni era spesso andato su fiumi e laghi, uno che riusciva sempre a portarlo in luoghi o in momenti dove non catturavano mai alcunché.

Però stava bene con lui: mai uno screzio, si divertivano, parlavano, ridevano, si raccontavano le loro avventure di pesca e le loro vicende personali; magari anche qualche barzelletta.

Ora l’uomo non c’era più: già allora era molto anziano e, dunque, se n’era andato da tempo.

Fra le altre cose, il vecchio una volta gli aveva raccontato che un tempo aveva posseduto una piccola casa in Sardegna, un po’ nell’interno.

Ovviamente appena arrivato nell’isola , aveva cercato un posto per pescare: c’era solo l’imbarazzo della scelta, visto che i sardi non amano il pesce d’acqua dolce e, quindi, non lo pescano.

Si era trovato il punto adatto e, già dalla prima volta, aveva catturato diverse carpe, tutte oltre i due chili, al punto che non entravano nel cestino di metallo, di quelli che usavano un tempo.

Così le aveva legate ad una corda in acqua, salvo, poi, vederle fuggire in fila indiana, ancora legate!

Ma si rifece quello stesso giorno e i successivi, catturando ogni volta dai trenta ai cinquanta chili di pesci.

Erano tempi in cui non c’era la cultura del rilascio delle prede, per cui lui riforniva quotidianamente ospizi, asili e perfino un carcere dove, a momenti, lo arrestavano guardando con sospetto la sua donazione!

Successe un giorno che rimase insabbiato sulla riva con la macchina e fu costretto a farsi trainare da un passante col quale chiacchierò poi amabilmente di pesca.

Questi gli rivelò che lavorava alla diga sul fiume, dove c’era una centrale idroelettrica e che, se si fosse presentato là chiedendo di lui, l’avrebbe fatto pescare nel bacino artificiale: “Però passi prima in paese e cambi tutta la sua attrezzatura, perché alla diga ci sono carpe da trenta chili e oltre!”, concluse.

Il vecchio amico di Toni ringraziò, ma non ebbe mai il coraggio di cimentarsi in quella pesca estrema.

Ora Toni pensò che, forse, avrebbe potuto trovare una via di mezzo fra la pesca iper-attrezzata e tecnologica che aveva ammirato nel film e quella più naif che praticava lui, il tutto con un sacrificio economico, sì, ma senza esagerazioni.

Si munì, quindi di una canna nuova, di quel tipo speciale che serviva per le “big”, di un mulinello capace di contenere centinaia di metri di filo o di apposita treccia, di un guadino che più che da carpa pareva da tonni e di alcune buste di mangimi e pasture non troppo care.

Organizzò, così, una settimana di vacanza in Sardegna all’inizio delle sue ferie estive e partì.

Trovò il luogo, parlò e si fece amico di diversi locali (e i sardi sanno essere tanto generosi ed amici quanto sono chiusi di carattere).

Riuscì così a procurarsi i permessi per pescare alla centrale idroelettrica e un pomeriggio partì.

Avrebbe preparato ogni cosa fino all’imbrunire e avrebbe iniziato a pescare di notte e fino a tutta la mattina seguente.

Pasturò con un misero chilo e mezzo di impasto aromatico, mise la canna su un normale reggicanne, legandola per sicurezza e, al posto del segnalatore sonoro o luminoso, si affidò ad un vecchio campanellino da pochi centesimi: di più non poteva fare e non riteneva giusto fare.

Lanciò la pastura un po’ a caso, visto che non aveva un ecoscandaglio, fidandosi del fiuto e dell’esperienza; poi innescò e lanciò la sua lenza, pieno di speranze.

Il problema maggiore era che non aveva un appoggio: era solo e, in caso di emergenza, nessuno l’avrebbe potuto aiutare.

Quando calò la sera, arrivò anche la paura: la paura primordiale dell’ignoto, del silenzio, del buio più assoluto, della solitudine.

Ad un certo punto il campanello trillò brevemente, poi tacque.

Per quella prima notte non ci fu altro.

Nella tarda mattinata successiva, non avendo avuto altre mangiate, smontò il tutto e tornò alla camera che aveva affittato per concedersi un po’ di riposo: era stanco, era deluso, era conscio del fatto che, probabilmente, era stato presuntuoso a pensare di improvvisarsi pescatore di carpe giganti senza le necessarie esperienza e attrezzatura.

D’altronde la casa era pagata, così come il traghetto e l’attrezzatura, quindi tanto valeva ritentare ancora per tutta la settimana.

Ebbe, è vero, anche la tentazione di andare in un altro luogo sul fiume a pescare pesci “normali”, ma a che pro? Quelli li avrebbe potuti prendere al suo laghetto nelle settimane successive.

Almeno una volta nella vita uno deve osare o avrà sprecato la vita vedendo gli altri viverla in vece sua.

La seconda notte ci furono un paio di abboccate e null’altro.

La terza agganciò e catturò una carpa di circa quattro chili, almeno stando alla bilancia che gli aveva regalato Gigi.

Non la fotografò neppure: la macchina fotografica digitale, posizionata sull’autoscatto, giaceva da tre giorni inutilizzata sul cavalletto.

Fu la quarta notte che, assorto nell’ascolto del piccolo lettore MP3 che gli faceva compagnia, gli sembrò di sentire un trillo più lungo.

Si strappò gli auricolari dalle orecchie e stette in ascolto; il campanello trillò di nuovo, allora, lentamente, lo tolse dal cimino, onde evitare che lo intralciasse nel recupero.

Slegò anche la canna, attento a non muoverla e a non insospettire così il pesce che stava gironzolando intorno alla sua esca.

La lampadina che portava legata sulla fronte illuminava il cimino della canna: d’un tratto questi si piegò all’improvviso e con violenza.

Toni ferrò prontamente e la sentì: la sua esperienza gli diceva che quella bestia era della taglia, perlomeno, del “re”.

Il guadino era pronto, poggiato su un secondo reggicanna.

Diede filo al suo avversario, affinché perdesse la prima fase del proprio vigore, poi iniziò il lento recupero, fatto di tira e molla.

Il cuore gli faceva un “tum – tum” assordante, era buio fondo, lui era solo, aveva paura, ma era felice, comunque fosse finita, eccola: era arrivata, era lei, l’adrenalina…!

Con l’amo che aveva montato sulla lenza il pesce non poteva slamarsi, col filo che aveva sul mulinello, non poteva strappare; forse ci sarebbe voluta tutta la notte, forse anche la mattinata successiva, ma stavolta, alla fine, lui avrebbe avuto ragione del gigante.

Andava bene così, non c’era fretta: d’altronde l’importante non è ciò che provi alla fine di una corsa, ma quello che provi mentre corri.

 
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Pubblicato da su settembre 30, 2011 in racconti pesca

 

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IL RE VA IN MONTAGNA

IL RE VA IN MONTAGNA

Tutti gli anni era la stessa storia: Toni, che pure viaggiava da solo, sia alla partenza per le vacanze che al ritorno da esse aveva la macchina stracarica di bagagli, sacchetti ed altro.

Il problema, in realtà, non era tanto quello di quanto fosse piena l’automobile, quanto il doverla caricare e scaricare e il rimettere poi tutto a posto al rientro in città.

Il suo ritorno a Milano era uno schema fisso, vale a dire stessa ora di partenza degli anni precedenti, stessa ora d’arrivo in città e stesso proposito: scarico tutto più tardi, con calma.

Poi il pensiero: “…E se qualcuno vede la macchina carica e la ruba o la apre per rubare le borse? Beh, scarico ora, ma lascio i bagagli nell’atrio del condominio e li porterò di sopra, in casa, più tardi, nel pomeriggio”.

Nuovo pensiero: “…E se qualcuno li porta via ancora più facilmente? L’addetto alle pulizie lascia sempre il portone spalancato! Qui ho la macchina fotografica, nello zainetto il cellulare, là i libri, nell’altra borsa floppy e cd con materiale di lavoro…”.

Così, con una serie interminabile di viaggi accompagnati da imprecazioni e sudate, portava tutto direttamente in casa e poi, non contento, scendeva a rimettere a posto i sedili posteriori della macchina, abbattuti per far posto a quell’incredibile numero di valige, borse, attrezzi da pesca e sacchetti.

Infine, naturalmente, c’era l’ultima fase: si riprometteva di mettere ogni cosa a posto nei giorni seguenti “Tiro solo fuori la biancheria sporca e la metto a lavare; ma già che ci sono, quasi, quasi metto via il materiale importante…” e così, dopo ore di lavoro, aveva già riposto anche la valigia sul tetto dell’armadio del ripostiglio.

Ogni anno, prima di partire, si riproponeva, quindi, di ridurre il numero dei bagagli, ma tutto sembrava indispensabile e, ovviamente, finiva anzi per dimenticare qualcosa d’importante in città, come, ad esempio, le chiavi di scorta dell’automobile.

Per questo, al termine delle vacanze, veniva sempre esortato dai parenti a lasciare lì quello che non gli sarebbe servito a Milano, che tanto l’avrebbe ritrovato l’anno seguente.

In particolare il riferimento era ai voluminosi attrezzi da pesca: la sacca con le canne e i guadini, la borsa con gli attrezzi, l’altra con le reti porta pesci.

In effetti più volte era stato tentato di liberarsi di almeno quei tre ingombranti bagagli, ma era sempre stato assalito dal dubbio: “…E se poi mi capita l’occasione di andare a pescare quando sono a Milano?”.

Certo era difficile: avrebbe dovuto, per prima cosa rinnovare la licenza, scaduta da decenni, oppure accontentarsi di laghetti a pagamento che, però, non conosceva, quindi tanto valeva lasciare tutto in Toscana per l’anno seguente… ma se poi capita l’occasione?

E l’occasione, alla fine, capitò.

Nella sua borsa di serio lavoratore, Toni portava sempre le fotografie delle sue più recenti catture: ovviamente quell’anno faceva sfoggio di sé quella con lo “strogovic” catturato l’estate precedente, e mostrava con orgoglio le sue prede a tutti i colleghi.

Erano da poco stati assunti due nuovi impiegati e uno di questi era un pescatore sfegatato che, subito, lo invitò ad andare a pescare con lui e il suo gruppetto di amici.

Toni, però, nicchiava: “Sai, non ho più la licenza, dovrei rifare tutto e per poche volte, non vale la pena…

Ma come, non sai che da quest’anno è possibile fare dei permessi giornalieri che costano poco e non richiedono tutta la massa di documenti della vecchia licenza?”

Davanti a queste argomentazioni Toni non poté più tirarsi indietro e ringraziò di non essersi fatto convincere a lasciare la sua attrezzatura in campagna, dai parenti.

Il gruppo di amici pescatori, tre più Toni, aveva deciso di fare un week-end in Trentino, poco dopo l’apertura della stagione della pesca alla trota, per pescare in un laghetto dove, pare, ci fossero enormi trote di lago: le più grosse superavano abbondantemente i venti chili, e questi non erano pesci d’allevamento, come quelli delle cave a pagamento, ma pesci autoctoni e liberi, con una forza dieci volte superiore.

Le trote, poi, per natura sono combattive, come tutti i predatori, e perfino le più piccole danno filo da torcere anche ai pescatori più esperti.

Giunti sul posto, realizzarono subito che avrebbero anche potuto non pescare nulla, ma il panorama che si presentava loro valeva da solo ben oltre le spese del viaggio e dell’albergo: il laghetto, di un blu zaffiro, era incastonato fra le montagne, le più alte delle quali portavano ancora il loro candido cappuccio nevoso, ed era circondato da prati che sfumavano nel brullo dei duemila metri; qua e là spuntavano dal verde dei pascoli le malghe fatte di grosse pietre di granito, col classico tetto spiovente di ardesia.

Mucche, sia brune che pezzate, pascolavano tranquille, facendo riecheggiare contro le pareti di granito il lento suono dei loro campanacci.

Il piccolo albergo dove avevano prenotato le due notti che avrebbero passato lì, era ad alcuni chilometri dal lago, ma in compenso vi si mangiava divinamente.

Toni ordinò un misterioso “piatto Trentino”: gli portarono una montagna di polenta con sopra tre uova al burro e non meno di un etto e mezzo di speck.

Quella cena avrebbe messo kappaò chiunque, così i quattro compagni d’avventura decisero di ritirarsi presto: in tal modo la mattina seguente, all’alba, sarebbero stati sul luogo di pesca.

La mattina seguente all’alba, invece, era pronto e vestito il solo Toni, mentre i suoi nuovi amici non davano segno di vita.

Così, dopo una veloce, quanto calorica, colazione, questi lasciò detto al portiere di riferire agli amici che lui andava avanti e che li avrebbe aspettati sul luogo di pesca.

Si avviò con una delle due automobili con le quali erano arrivati (avevano troppi attrezzi per poter sfruttare, in quattro, una sola autovettura) ma, ad un certo punto, non ricordò quale fosse la strada; fortunatamente incrociò un contadino con un’enorme gerla in spalla e un forcone di legno in mano, al quale chiese informazioni.

L’uomo gli fornì le indicazioni richieste e s’intrattenne a parlare alcuni minuti col pescatore.

Dia retta a me – gli disse – lasci perdere le camole e le uova di salmone: quelle sono esche per la pianura. Qui i nostri pesci i se abituà a magnar i vermi. Qui la terra se grassa e ghe n’è tanti. Cal guarda

E così detto, in quel suo buffo dialetto italianizzato, piantò il forcone nella terra di un prato a lato della strada, la smosse un po’ con movimenti di avanti – indietro, creando il cosiddetto “effetto terremoto”, e subito dei grossi lombrichi rossi emersero dal terreno.

Toni ringraziò l’uomo, prese i vermi, li pose in una scatolina porta esche e si avviò trepidante verso il lago.

Qui giunto scelse il luogo che più lo ispirava ed armò la canna.

Sapeva di dover usare del filo robusto poiché se ci fossero state delle catture, queste avrebbero avuto dimensioni importanti.

Un buon filo, un amo abbastanza grosso da potergli calzare per bene i grassi lombrichi appena raccolti, un galleggiante ben visibile, e Toni era pronto: lanciò.

Passarono pochi minuti e la pallina di sughero rosso cominciò a spostarsi lentamente sulla superficie perfettamente piatta del lago; poi, di colpo, affondò…

* * *

Erano quasi le otto quando i tre compagni d’avventure di Toni si svegliarono.

Erano un po’ contrariati del fatto che l’amico non li avesse aspettati, ma d’altra parte si rendevano conto di essere loro in torto per il colpevole ritardo con cui si erano alzati.

Fatta colazione e ricevuto il messaggio di Toni, si avviarono verso il luogo di pesca.

Incontrarono anch’essi lo stesso contadino e gli chiesero se avesse per caso visto il loro amico.

Questi rispose affermativamente e diede loro gli stessi consigli dati a Toni in precedenza.

In pochi minuti anche i tre furono sul posto, con le loro brave scatoline di lombrichi appena raccolti, ma prima non poterono fare a meno di fermarsi un istante a contemplare ancora una volta il panorama.

Subito dopo si misero alla ricerca di Toni: lo specchio d’acqua non era molto vasto, eppure immenso se paragonato alla dimensione del lago dei frati, regno di Toni, e individuare un pescatore non doveva essere difficile, ma di lui non pareva esservi traccia.

Dopo diversi tentativi di chiamarlo a gran voce, con l’antico granito che ripeteva, quasi a schernirli: “..oni ..oni ..oni”, i tre cominciarono a preoccuparsi sul serio e si divisero per fare il giro del lago nel minor tempo possibile.

* * *

All’affondare del galleggiante Toni aveva ferrato con decisione e la pallina era rimasta immobile, come se avesse agganciato il fondale, per alcuni secondi, poi il pesce era partito, diretto verso il centro del lago.

La frizione ronzava mentre metri e metri di filo si srotolavano. La canna era piegata a formare una parabola quasi perfetta e, sotto la sottile brezza del primo, tiepido mattino, che nel frattempo aveva cominciato a spirare, il filo, in pericolosa tensione, fischiava la sua canzone.

Non fu possibile recuperarne un sol metro, ma dopo un po’, fortunatamente, il pesce rallentò e si fermò.

Anche così, però, non c’era verso di tirarlo a riva.

L’unica possibilità era tenerlo fermo per stancarlo e fiaccare la sua resistenza.

Valutando che se il grosso filo non si era spezzato fino ad allora, forse non lo avrebbe fatto neppure in seguito, Toni abbandonò la canna a terra, si avvolse il fazzoletto intorno alla mano destra, onde evitare dolorosi tagli, e il filo intorno a questo e cercò di tirare a riva la trota in tale maniera.

Ma anche in questo modo non ottenne risultato alcuno: per un momento pensò che il pesce si fosse andato a rintanare, anche se le trote non sono solite avere tane, e fosse irrimediabilmente perso, ma un metro di filo rubatogli e mezzo recuperato, lo convinsero che così non era.

Ora, addirittura, il pesce lo tirava verso le fredde acque nivali.

Toni si sdraiò allora a terra, puntando i piedi contro un masso e fece resistenza passiva: a questo punto uno dei due contendenti, prima o poi, si doveva stancare.

E fu in questa posizione che il pescatore si sentì male: un piccolo collasso da fatica ed emozione; per un attimo intorno a Toni scese la notte, tutto divenne nero e, se già non fosse stato sdraiato a terra, vi sarebbe caduto come un sacco vuoto.

Ma, in ogni caso, non mollò la presa.

C’era in ballo ben oltre che una preda in più o in meno da fotografare, c’era la supremazia, c’era da dimostrare, come era stato un tempo per il re del lago dei frati, chi fosse ora il re della montagna.

Toni era stato sconfitto, con onore, ma sconfitto, una volta e non avrebbe accettato di esserlo la seconda.

* * *

I tre compagni di pesca percorrevano le sponde del lago, fra massi franati e sporadiche conifere, le ultime, a quell’altitudine, chiamando a gran voce l’amico.

Fu proprio il suo collega a sentire il rantolo che proveniva da dietro due grossi abeti.

Toni giaceva a terra, rosso in viso, con gli occhi riversi all’indietro, le gambe, rigide, puntate contro il masso e il filo avvolto intorno alla mano destra e guidato dalla sinistra, che faceva piccoli spostamenti laterali, segno che dall’altra parte qualcosa giocava al tiro alla fune con l’uomo, solo che oramai non era più un gioco e la bandiera di centro-fune, in questo caso era la vita di entrambi.

Ruggero chiamò a gran voce gli altri due amici, che arrivarono di corsa: mentre questi si alternavano a recuperare il filo con la preda ormai esausta, lui sollevò un poco, con cautela, Toni e lo mise a sedere con la schiena contro uno dei due alberi.

Usando lo stesso fazzoletto che l’uomo aveva tenuto a proteggergli la mano, gli bagnò un poco la fronte con la fredda acqua del lago.

Come stai?” gli domandò preoccupato.

Meglio”, rispose Toni con un filo di voce roca, ma non era vero.

Nel frattempo gli altri due pescatori completarono il recupero del pesce.

La bilancina elettronica di Toni, vecchio regalo dell’amico Gigi, diceva 24 kg.

Liberatela!”, ordinò Toni ai suoi compagni.

Come? Dopo che hai quasi rischiato la vita, ora la vuoi lasciare andare?

Così non vale – disse senza possibilità di replica il combattente ferito – tre contro uno! Diciamo che stavolta è finita in pareggio”, concluse sorridendo, mentre l’animale con lenti e ampi movimenti della coda, tornava al suo regno.

 
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Pubblicato da su settembre 20, 2011 in racconti pesca

 

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