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DOVE VANO A FINIRE I PALLONCINI?

 DOVE VANNO A FINIRE I PALLONCINI?


 Il piccolo Roberto a quella grande festa aveva voluto che mamma e papà gli acquistassero un palloncino. Del resto a cinque anni cosa ne sapeva lui di marcia per la pace, contro la guerra, per i diritti di tutti gli uomini e contro ogni discriminazione?

Lui sapeva solo che gli piaceva quell’aria di festa, quella voglia di tutte quelle persone colorate  in viso e negli abiti di stare insieme, di marciare, di parlare, di cantare tutti uniti, tenendosi a braccetto. A lato del corteo c’era il venditore di palloncini, ma in questo caso non vendeva nulla, chiedeva, se si voleva, una offerta libera e se uno non poteva, il palloncino era garantito comunque per ogni bambino.

Robertino tirò mamma e papà per le mani li portò dal “palloncinaio”, come lo chiamava lui. I palloncini avevano tutti come tema i colori della pace, quelle strisce multicolori così allegre e lui ne scelse uno bianco con in mezzo le righe ad onda. Ma mentre l’uomo glielo legava al polso, come da sempre faceva con tutti i bambini, la presa gli sfuggì e il palloncino volò via.

Il bambino scoppiò a piangere, ma il venditore gliene porse subito un altro e il papà di Roberto gli diede cinque euro per la causa, per tutte le cause che tutte quelle persone erano lì a difendere con la loro presenza, senza armi, senza insulti, senza distinzione di razza e ceto

Il bimbo con mamma e papà rientrò nel corteo che marciava senza una meta, solo portava per la città, una città spesso insensibile, il suo messaggio di amore e solidarietà.

Robertino era circospetto: dopo l’incidente della fuga del primo palloncino non voleva che qualcuno gli facesse scoppiare anche il secondo, ma pur tenendo d’occhio il suo tesoro, cercava con lo sguardo di individuare quello che era fuggito: già, chissà dove era andato, chissà dove vanno tutti i palloncini che fuggono via verso la libertà?

Altri palloncini erano scappati e adesso volavano alti fino a diventare un piccolo punto colorato per poi sparire definitivamente.

Una volta Robertino aveva chiesto al padre perché i palloncini volassero mentre tutte le altre cose, compresi i vari palloni che aveva nella sua cameretta, cadessero al suolo. Difficile dare una spiegazione scientifica a un bambino così piccolo, spiegargli cosa è la forza di gravità e cosa è l’elio, che questo è più leggero di azoto e ossigeno e quindi risale verso l’alto mentre i palloni da calcio, da basket e da spiaggia devono sottostare alla gravità.

Forse fra un po’ di anni, quando sarebbe stato alle medie o magari anche più avanti, gli avrebbero spiegato che l’elio si forma per fusione di due gas che si chiamano deuterio e trizio, che questi sono isotopi dell’idrogeno, che questo processo avviene in natura nel sole, grazie a milioni di gradi di temperatura e che quando questo cesserà per mancanza di materiale da trasformare, allora il sole mestamente si spegnerà e sarà la fine del sistema solare, o almeno dei primi tre pianeti e della vita sulla terra.

Naah, sono discorsi troppo difficili per un bambino ed alla fine anche tristi, perché parlano di morte, di fine dell’esistenza di tutte le specie viventi sul nostro pianeta che verrà bruciato dal sole diventato rosso ed enorme prima di contrarsi e spegnersi. Allora papà inventava storie edificanti, come quella che nei palloncini c’erano i sospiri di coloro che si amano e che questo volavano in cielo a portare dei messaggi agli angeli. Oppure che sì, nei palloncini c’era quel gas leggero, leggero e che siccome gli antichi chiamavano il sole Helios, questo gas era stato chiamato elio e quando poteva cercava di ritornare a casa, lassù nel sole, trascinandosi dietro il suo involucro colorato, magari a forma di coniglio, di cuore o quant’altro.

Come si fa a spiegare a un bambino che quell’oggetto che ama, che anche solo per poche ore gli ha dato un sorriso, ad un certo punto scoppierà per la differenza di pressione e che l’elio che contiene si disperderà in mezzo agli altri gas dell’atmosfera? Una volta papà aveva mostrato al figlio un filmato sul computer dove dei ragazzi respiravano elio e poi parlavano con quella vocetta strana, simile a Paperino: quanto aveva riso Robertino, fino a non poterne più, fino a farsi fare male la pancia dal ridere!

È così bello vedere un bambino ridere, perché un genitore pensa che presto inizierà la vita vera, che non è sempre una bella cosa e che le occasioni di ridere, o anche solo di sorridere, saranno ogni giorno di meno.

Il palloncino di Roberto era volato via, lui cercava di vederlo, ma non lo si scorgeva più; forse era il palloncino più dispettoso e più veloce del mondo a scappare via e il piccolo lo immaginava già vicino a papà – sole: cosa ne sa lui di quanti sono centocinquanta milioni di chilometri e quanto tempo ci vorrebbe a percorrerli.

Ma il suo palloncino col simbolo della pace non era arrivato così lontano, ma si era fermato in attesa dietro una grande nuvola, invisibile dalla terra, ma anche da eventuali aerei e lì stava in attesa e piano, piano, arrivarono altri suoi fratelli, decine, centinaia, migliaia di palloncini fuggiti o lasciati andare da tanti bambini, da tutti i bambini, almeno da quelli che se ne potevano permettere uno, sì perché tanti bambini non hanno mai visto un palloncino, e anche se lo avessero visto non se lo potrebbero permettere perché il loro scopo principale è cibarsi e sopravvivere e a volte non hanno i soldi neppure per quello.

Così i palloncini arrivarono da ogni dove alla spicciolata e quando furono tutti lì, insieme, fu allora che iniziò il loro secondo compito, dopo avere dato qualche istante di felicità ai loro padroncini, felicità poi trasformatasi in lacrime, ma questa trasformazione avviene anche per gli adulti.

Da lassù, invisibili, ma presenti, i palloncini avevano ricevuto l’incarico di sorvegliare i bambini, di proteggerli, evitare che una caduta, magari, diventasse fatale e in tal caso loro mandavano un invisibile spiffero che li sosteneva, che attutiva l’impatto, ma soprattutto loro dovevano proteggerli dal male, dal dolore, dalla cattiveria del mondo e di tante, troppe persone.

A volte non ci riuscivano, perché loro erano solo palloncini creati per dare poche, piccole cose ai bambini. Nascosti nella loro nuvola i palloncini appena arrivati individuarono il “loro” bambino e cominciarono a prendersene cura. Forse sono loro, i palloncini fuggiti, quelli che noi chiamiamo “angeli” anche se poi noi li immaginiamo antropomorfi, dotati di ali e simili a putti di quadri antichi. I palloncini non sono certo eterni, ma presto ne sarebbero arrivati altri a sostituire quelli scoppiati e quasi altrettanto presto, purtroppo, i bambini non sarebbero stati più tali e sarebbe stato troppo difficile, impossibile, forse, proteggerli dal male.

Anche dal male di fare del male.

Chissà, forse quel compito avrebbe potuto essere svolto anche da altri oggetti, ma i palloncini volano in alto, nel cielo, da dove si vede tutto e la loro missione era lassù, dove comanda il Padrone dei Cieli.

 

 
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Pubblicato da su Maggio 2, 2020 in Racconti

 

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L’UOMO NEL LETTO

L’UOMO NEL LETTO

 

La casa era grande, forse troppo, certamente inconsueta in un paese così piccolo.

Era una casa vecchia, fresca anche d’estate, a volte gelida d’inverno, un inverno che sull’Appennino, spesso, può essere spietato.

Tutto era immerso in una penombra discreta e pietosa; in fondo al lungo corridoio c’era una stanza con un grande letto e nel letto un uomo, o almeno ciò che ne restava, perché l’uomo stava morendo: anzi, sarebbe meglio dire che si stava disfacendo.

Accanto al letto, in una vecchia poltrona dalla tappezzeria un po’ sdrucita, la moglie s’era appisolata: era stata un’altra di quelle notti difficili, fatte di lamenti che degeneravano in urla di dolore, di lacrime silenziose, di richiesta di un pietoso aiuto per porre a termine tanta sofferenza.

La donna, così assopita, dimostrava ben più dei suoi quarant’anni: le guance scavate da troppe notti insonni, da tanti pasti saltati, il viso e lo sguardo devastati dal dolore.

In un’altra parte della casa qualcuno pregava sommessamente fin da quando si era sparsa velocemente la voce, come spesso succede nei piccoli paesi, che oramai il momento era vicino.

A quell’uomo tutti avevano voluto e volevano bene, e non perché ora fosse malato, ma perché tanto amore se lo era meritato quando era sano: era così ingiusto che proprio lui dovesse soffrire in quel modo ed andarsene così presto!

Tutto era cominciato non più di un anno e mezzo prima con qualche piccolo disturbo sottovalutato, un po’ di perdita di peso, poi, quando i sintomi avevano cominciato a peggiorare, le analisi avevano dato la risposta impietosa: “È troppo tardi”.

Da allora per l’uomo, la moglie, i suoi due figli ancora adolescenti, era iniziato l’inferno, l’inferno della consapevolezza che tutto ciò che si fa è inutile e non porterà a nulla se non a ritardare solo di un poco l’inevitabile epilogo.

Quando il più piccolo dei due figli scendeva, per andare a scuola, dalla stradina sul retro della casa, spesso trovava per terra un’arancia, un limone, un frutto caduto: il suo gioco era sempre quello di spingerlo col piede fino a che, presa la discesa e vinto, per la pendenza, l’attrito, questo cominciava a rotolare da solo, acquistando sempre più velocità, fino ad arrivare in mezzo alla strada principale, dove un’automobile lo avrebbe presto schiacciato.

Nella malattia di suo padre era successa più o meno la stessa cosa: questa era “rotolata”, dapprima piano, poi sempre più velocemente, ed ora era quasi giunta alla strada principale, in attesa solo delle pietose ruote che avrebbero posto fine a quel macabro gioco.

Negli ultimi mesi le urla di dolore, di quel dolore causato dalla bestia che ti divora da dentro, erano più volte riecheggiate per tutto il paese: qualcuno, udendole, aveva pregato, qualche risata, qualche discorso, erano stati troncati a metà, perché tutti sapevano e capivano, perché molti temevano, egoisticamente, che la stessa cosa potesse, prima o poi, capitare a loro.

Ora, però, i medici erano stati chiari: era questione di giorni, forse di ore e poi, per tutti, sarebbe stato un altro tipo di dolore, quello del vuoto, quello di entrare nella stanza in fondo al corridoio e vedere il letto rifatto con cura senza più nessuno dentro.

D’improvviso una nube nera, sottile e pure spessa come un mantello da pastore, si stese a coprire il paese: molte luci dovettero accendersi in pieno giorno.

Iniziò a fischiare un vento freddo, prima piano, poi sempre più forte, e il suo sibilo diventò un urlo.

Si mise a piovere con scrosci sferzanti.

L’uomo nel letto urlò, la moglie si svegliò di soprassalto, gli carezzò la fronte magra e grigiastra e gli tamponò le labbra secche con una pezzuola bagnata: altro non sapeva e non poteva più fare.

L’uomo urlò ancora, cercò di dire che lo aiutassero a finire quello strazio, ma non riuscì ad emettere se non un altro grido di dolore.

Dall’altra parte del corridoio le preghiere delle vecchie, già vestite in gramaglie, aumentarono di volume, quasi per non essere costretti ad udire più quelle urla.

La pioggia batteva, il cielo si fece più nero, il vento urlava ad ogni grido dell’uomo nel letto in fondo al corridoio, quasi a volerlo schernire: “Aah“, faceva uno “Uuh”, rispondeva l’altro.

Da tempo la vita aveva avuto perlomeno un po’ di pietà e l’uomo aveva perduto il senso della realtà, ma in queste ultime ore, essa era ritornata prepotente, lui era adesso nuovamente lucido, quasi a prepararsi coscientemente al viaggio senza ritorno che stava per compiere verso una destinazione tanto ignota, quanto definitiva.

Ansimava, sudava e piangeva, fra un grido e il successivo: la moglie no, non piangeva più, aveva usato tutte le sue lacrime da tempo.

Il vento urlava e il manto nero si stendeva sempre più vasto.

Poi ci fu l’ultimo grido e quindi il silenzio.

Nella casa tutti capirono.

Il vento cessò, la nube nera si ritirò.

La morte aveva avuto il suo tributo.

Ora la coltre scura si stendeva sul paese vicino; il vento cominciò a fischiare e qualcuno urlò: la morte si era spostata più in là.

 

 
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Pubblicato da su luglio 27, 2012 in Racconti

 

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LA TARTARUGA

LA TARTARUGA

Di anni ne aveva parecchi: era un vecchio maschio cattivo ed irascibile.
Portava sulla corazza i segni di cento battaglie combattute e vinte.
Ma neppure la sconfitta degli avversari gli aveva mai dato un attimo di gioia. Combatteva ed uccide¬va solo per sfogare la propria rabbia di esistere.
Odiava gli altri perché odiava se stesso.
Ed odiava la vita: nei pochi momenti in cui non era pericoloso e gli si poteva parlare, alcuni animaletti del bosco avevano cercato di convincerlo che la vita è bella e vale la pena di viverla.
Era bella per¬ché c’è il cielo azzurro dove le nuvole si rincorrono e sarebbe stupendo scoprire dove vanno le nuvole.
Questo gli dicevano. Ma lui a queste parole si arrabbiava “lo fate apposta” diceva, “mi prendete in giro perché siete più veloci e non vi posso raggiungere, altrimenti vi farei vedere io…..
Ma quale cielo, quali nuvole, quale azzurro, io lo vedo il mon¬do, è qui a poca distanza dai miei occhi: è grigio, sporco, è freddo e quando piove è ancora peggio: diventa fango, ti insudicia, si rompe in mille rivoli e ti bagna ovunque.
Già, lui non poteva guardare in alto, vedere il cielo.
Pensava solo a divorare vermi ed insetti. Se vedeva un fiore lo calpestava o lo strappava col becco.
Se  poteva, attacca¬va gli animali più giovani, e buon per loro se lui, per la sua natura, era troppo lento.
Del resto quando si nasce tar¬taruga, costretti a portarsi appresso quella corazza, o si diventa filosofi o si intristisce.
Il bosco, quel piccolo mondo felice, oramai lo odiava: quell’essere senza slanci senza ne’ lacrime, ne’ sorrisi, ne turbava la pace e l’equilibrio.
Decisero, allora, di liberarsene.
Bastava capovolgerlo e sa¬rebbe stata la sua fine.
Ma chi osava farlo? e chi ne aveva la forza?
Allora si misero tutti assieme: i piccoli roditori scava¬rono una buca e gli uccelli la coprirono di rametti sottili.
Gli altri animaletti si misero al di là della buca, inveendogli contro per farsi inseguire ed attaccare. nonostante l’età e l’esperienza abboccò come un novellino: cadde nella trappola e si rovesciò.
* * *
Quando riprese i sensi aprì gli occhi e fu quasi accecato.
Il mondo che vedeva non era più ne’ grigio ne’ sporco.
Era luce, era profumo. E finalmente vide il cielo azzurro.
Dio, che bello che era il mondo, e lui non l’aveva mai visto. Dio se avesse potuto tornare indietro ed essere ancora giovane!
Di certo non avrebbe più fatto del male ne’ ucciso, perché tutti devono vivere, godere di tanta meraviglia.
E poi le nuvole! Com’erano belle anche loro! Proprio come gliele avevano descritte: alcune bianche, altre rosa, e correvano, correvano… chissà dove andavano? Arche lui avrebbe voluto saperlo.
Questa era la vita ed era meravigliosa.
Gli scese perfino una lacrima.
Oramai lui era arrivato al suo capolinea.
Non poteva più fare nulla. Morì così, senza scoprire dove vanno le nuvole.

 
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Pubblicato da su febbraio 4, 2012 in Racconti

 

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LE NUVOLE DI WATERLOO

LE NUVOLE DI WATERLOO

Jean – Marc guardò in alto e vide un veliero spostarsi docile nel cielo, poi questo si dissolse in un gregge di pecore al pascolo che diventarono ben presto gabbiani sul mare caldo di una tiepida estate.

Non gli succedeva più da quando era bambino, quando sulle sue montagne si sdraiava nel mezzo di un prato col suo miglior amico accanto e giocavano ad individuare nelle nuvole le figure più fantasiose.
Ora era un uomo fatto e non stava giocando: le nuvole erano tutto ciò che poteva vedere dalla sua posizione, supino in mezzo alla polvere, al sangue, ai sassi della piana di Waterloo: un colpo di baionetta nella schiena l’aveva costretto in quella posizione, a giocare a guardare le nuvole, ma era un gioco doloroso, lo era fino alle lacrime e le nuvole non erano solo vapore acqueo, ma anche la polvere sollevata da migliaia di uomini e di cavalli e il fumo dei cannoni.

Era il diciotto giugno milleottocentoquindici e quella sarebbe stata l’ultima battaglia, perché si era tirata troppo la corda: il piccolo francese dai grandi sogni e dalle enormi ambizioni le aveva già prese dure a Trafalgar, ma era tornato, perché combattere era l’unica cosa che sapeva fare, ma ora si trovava davanti l’inglese e il prussiano, Wellington e Blücher, altrettanto decisi a chiudere definitivamente i conti con lui e le sue ambizioni da nano megalomane.
Il piccolo generale corso aveva fatto il grande in Egitto, in Italia, ma poi aveva commesso l’errore d’infilarsi in quella trappola ad imbuto che era l’inverno russo e quell’altro, ancora più grande, di sottovalutare i suoi nemici più agguerriti.

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A dire il vero non era stato lui il solo a sbagliare: anche quelli della vecchia guardia erano stati abbagliati dall’illusorio baluginare delle sue medaglie: pensavano di avere di fronte un gigante, ma non avevano guardato dove era il sole: questo era basso alle sue spalle e ciò che vedevano era, in realtà, solo l’ombra di un nano.

Ma non bastava: anche lì, in terra Belga, in quel piccolo e inutile paese di mucche e contadini, mentre lui, vista la mal parata se l’era data a gambe ed era tornato a Parigi, lasciando loro a fare quadrato, a farsi massacrare da un nemico reso più forte dai successi loro, quelli delle campagne grandiose che, però, adesso erano oramai sfiniti e demotivati, stupidamente si erano comunque sacrificati per la vanagloria del loro imperatore.

Ora le nuvole erano onde di un mare in tempesta e le volute di fumo della battaglia ormai finita si mescolavano a queste e confondevano la loro visione e le lacrime del soldato ferito le sfocavano ulteriormente.

Fosse restato a fare il contadino!

Ma quell’esaltazione di conquiste, quel delirio di onnipotenza, l’avevano accecato, gli avevano prospettato una vita diversa in una nazione diversa, una enorme nazione grande quanto tutta l’Europa, fino a confini di paesi mai sentiti, e poi al di là del mare, in Africa, per essere i più grandi, i più forti, ma senza pensare che per loro, la carne da cannone, i predestinati al macello, nulla sarebbe cambiato comunque, perché il nano francese si sarebbe beato del suo potere, sentendosi alto quanto la sua ombra al tramonto, mentre loro avrebbero avuto, forse, una manciata di monete d’oro sporche del sangue di persone mai viste, che parlavano una lingua incomprensibile, ma che erano uguali a loro: dei contadini insoddisfatti che mai più avrebbero sentito il profumo della terra appena arata, del pane cotto dalle loro mogli nel forno di casa.

Una fitta alla schiena ferita distolse Jean – Marc dai suoi pensieri, dalle sue visioni di nuvole che sembravano animali e di letame che pareva oro.

Sentiva voci che non comprendeva: la battaglia era finita ed ognuno raccoglieva i propri feriti, seppelliva i propri morti e le lingue si mischiavano in una Babele di dolore.
In lontananza qualcuno piangeva: forse una donna, forse uno dei ragazzi più giovani che non voleva rassegnarsi a morire.

Più vicino sentiva i passi pesanti dei barellieri e dei becchini che pestavano il terreno coi loro stivali: chissà se sarebbero mai arrivati fino a lui, se ci fossero, soprattutto, arrivati in tempo.

Il vento girò e sfrangiò ulteriormente nuvole e fumo e gli portò alle narici un odore nauseabondo, quello delle interiora di migliaia di corpi fatti a pezzi.

Gli venne un impeto di vomito, ma resistette: non era neppure in grado di girare la testa e un rigurgito in quella posizione lo avrebbe soffocato.

Ora ai bianchi uccelli di ovatta creati dalle nubi scomposte dal vento, si unirono i neri corvi che pregustavano il loro turpe e osceno banchetto.

Qualcuno urlava ordini, qualcun altro gridava di dolore: ancora pianti; una donna in lontananza cantava una nenia melanconica, quasi una ninna nanna d’addio forse al suo uomo, forse a un uomo qualunque, forse per amore, forse per pietà.

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Ora i passi erano più vicini: coloro che raccoglievano i morti e i feriti erano arrivati fino a dove giaceva lui: gli venne un pensiero buffo, come spesso succede nelle situazioni più drammatiche: e se fossero, invece, stati loro, i tre generali, che contavano i morti per stabilire chi avesse vinto quell’assurda gara? avrebbe anche riso a quell’idea, ma qualsiasi movimento, anche un solo colpo di tosse, gli procurava fitte alla ferita e sangue dalla bocca che, nella sua posizione, non era meglio del vomito.

I vivi gridavano ordini, i feriti urlavano di dolore, ma tutto ciò era quasi silenzio rispetto alle altissime grida di battaglia, della sua esaltazione, di poco prima: è incredibile quanto quella droga che si chiama combattimento possa far gridare gli uomini fino a coprire il rombo stesso dei cannoni.

Ecco, vedeva di striscio accanto a sé gli stivali di quelli che venivano a raccogliere morti e moribondi; lo afferrarono in quattro, due per le spalle e due per le gambe.

Sentì uno strappo alla schiena ferita che gli fece emettere un urlo lacerante, il suo stesso sangue rappreso l’aveva incollato al terreno; lo deposero su un’improvvisata barella di tela e misero questa su un carro tirato da degli stupidi buoi belgi.

Mentre questo, tirato dai pazienti animali che non si erano offesi per il suo pensiero, si allontanava con esasperante lentezza, Jean – Marc guardò un’ultima volta le nuvole di Waterloo: ora era sicuro di individuarvi il cavallo bianco del suo generale e allora si rese conto che sì, perdio, avrebbe rifatto tutto da capo, dato nuovamente la sua vita per quell’inutile sogno di grandezza che, pur se solo un sogno, era comunque meglio della monotonia di una vita senza slanci.

Era il diciotto giugno milleottocentoquindici.

 
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Pubblicato da su settembre 9, 2011 in Racconti

 

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