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LA COSA MERAVIGLIOSA

LA COSA MERAVIGLIOSA

Dio è stato buono con noi, perché a noi non è mancata la cosa meravigliosa…”, così terminava il film.

Attilio era capitato per caso sul canale che trasmetteva quella vecchia pellicola.

Lui, il film, l’aveva visto almeno una decina di volte e ogni volta ci aveva pianto su, vergognandosene, ma giudicando sublime la costruzione dell’intera vicenda.

A volte odiava il regista, quei suoi mezzucci per commuovere lo spettatore, per fare piangere soprattutto lui, come la scena in cui, in contemporanea, cade la bomba che ucciderà William Holden, il protagonista, o almeno a morire sarà il personaggio da lui interpretato, un giornalista di guerra e, contemporaneamente alla bomba, cade la ciotolina contenente l’inchiostro, che fa scoppiare in lacrime la bambina asiatica (oltre a lui, ovviamente).

Odiava anche quella meravigliosa colonna sonora, forse la più bella della storia del cinema, assieme a quella di “Luci della ribalta”, che gli fosse mai capitato di ascoltare: anche quella era stata composta col solo scopo di fare piangere lui, soprattutto nel momento in cui entra l’intera orchestra con il tema principale.

Oramai era troppo tempo che si sorprendeva a piangere su di un film, su un romanzo, sovente anche su notizie di cronaca che decantavano grandi amori, a volte, magari, finiti tragicamente, ma che, comunque, c’erano stati e la cui storia niente e nessuno avrebbe potuto cancellare.

Il fatto era che lui, giunto oramai alla soglia della cinquantina, non lo aveva mai vissuto un grande amore; non che non avesse mai amato: quello l’aveva fatto, oh, se l’aveva fatto, anche fisicamente, ma era sempre stato amore ad una sola direzione: aveva amato donne che, al massimo, gli avevano detto “Ti voglio bene”, come lo si dice ad un amico o ad un cucciolo, mai con il trasporto dell’amore meraviglioso e intenso.

No, Dio non era stato buono con lui.

Quante volte aveva atteso di essere chiamato al telefono, magari in piena notte, per sentirsi dire: “Ti amo e mi manchi da morire”, oppure “Ti penso e non riesco a dormire”.

Era sempre stato lui quello che telefonava, non in piena notte, ovviamente, era lui quello che aveva elaborato la strategia del: “Vuoi buttare via così tutti i momenti belli che ci sono stati fra noi?”, fino a che qualcuna gli aveva risposto: “Quello che c’è stato, c’è stato ed oramai è passato: siamo stati bene insieme, ma niente più; spero che tu non ti fossi fatto illusioni, quello fra di noi era sesso, complicità, forse affetto, ma non il grande amore. Quello, caro mio, è un’altra cosa”.

Ma perché, si era sempre domandato, a lui il grande amore doveva essere negato? Che cosa c’era in lui che non andava?

Non era certo bello, ma c’erano donne innamoratissime di uomini molto peggio di lui; era intelligente, piacevole a parlargli, anche se qualcuno lo giudicava un po’ noioso, ma non era certo privo di cultura e poi sapeva dare amore assoluto, con dedizione e trasporto; allora cosa volevano gli altri, anzi, le altre, da lui? Possibile che fosse la sola persona al mondo incapace di farsi amare?

Sulla sua scrivania, oltre ad una tonnellata di polvere, aveva una vecchia agenda, in cui i quadratini con le lettere dell’alfabeto erano stropicciati e oramai sbiaditi, zeppa di nomi e numeri di gente inutile, oramai, alla sua vita: ex colleghi, ex amici, ma nessun ex amore, perchè quello era sempre mancato nella sua vita, come nella sua agenda.

L’amore è una cosa della quale chi ce l’ha, o ce l’ha avuto, non può più fare a meno, ma della quale può sempre, comunque, vivere nel ricordo, conservarne nella mente e nella pelle i momenti più belli ed esaltanti, ma chi non è mai stato amato, come non lo era stato Attilio, non ha neppure il ricordo, può solo viverlo attraverso gli altri, commuoversi per un film, un romanzo, può solo rammaricarsi di aver sprecato una vita inutilmente, qualunque altra cosa abbia fatto mentre gli altri amavano, mentre vivevano anche la porzione di cosa meravigliosa che sarebbe spettata a lui.

C’erano state due persone, almeno, nella sua vita, Silvia e Tania, per le quali sarebbe saltato nel fuoco, per le quali avrebbe mollato la sua vita, sarebbe fuggito con loro su di un’isola deserta, ma al di là di qualche pomeriggio di fuoco di passione, da loro non aveva avuto altre gratificazioni.

Quando nei momenti di maggiore abbandono, abbracciati in un letto inutilmente grande, lui implorava che gli dicessero quelle due parole, “Ti amo”, fossero pure estorte, fossero pure per finta, aveva sempre e solo ricevuto in cambio un “Ti voglio bene” che non è detto che sia meglio di nulla.

Ora, si sa, un uomo a cinquant’anni è ancore in pieno vigore, ma lui si sentiva stanco, vecchio, si immaginava malattie terribili, aveva momenti di ansia alternati ad altri di depressione, sempre che siano due cose diverse e aveva bisogno, un bisogno fisico, di qualcuno che si occupasse di lui, che lo sospingesse a trovare nella vita, in quella che gli rimaneva ancora delle motivazioni: invece ora era più solo che mai: aveva perso anche parte del vigore, della bellezza, del trasporto dei suoi anni migliori e quello che non aveva avuto fino ad allora, si rese conto che mai lo avrebbe avuto.

Gli mancava qualcuno che lo aiutasse ad affrontare le difficoltà quotidiane.

Aveva visto persone piangere la fine di un grande amore, altre che avevano perso in maniera tragica l’oggetto del loro sentimento: era terribile, ma almeno loro avevano vissuto anni, mesi, giorni, magari solo ore con accanto a sé la cosa meravigliosa: lui non poteva neppure rimpiangere e ricordare.

Finalmente prese la decisione: salì a bordo della sua automobile, vecchia e triste come il suo proprietario e si mise in viaggio sull’autostrada dei fiori.

Giunse proprio dove ricordava: un luogo, per certi versi molto simile a quello del finale del film.

Non aveva mai smesso di piangere per l’intero tragitto; parcheggiò la macchina in qualche modo e, senza neppure chiuderla a chiave, si mise a correre, attraversò il centro storico, giunse alla scalinata in salita e la percorse di un fiato, col cuore impazzito.

Al termine della scalinata iniziava il prato, non così ampio come quello del finale del film e di tanti altri momenti di passione della vicenda, ma questo era un altro finale: era il suo.

Senza, oramai, fiato salì fin dove poteva e si girò per un attimo a guardare di lontano il mare, il porto, la baia.

Si sentiva come Jennifer Jones, come madama Butterfly, anche se erano due casi ben diversi fra loro: lui si sentiva più vicino, fra le due, a Cio-Cio-San, il protagonista inconsapevole e involontario della tragedia di una vita sentimentale infelice.

Si sedette ansimando sotto l’unico albero che c’era in mezzo al prato: aveva deciso che non si sarebbe mai più mosso da lì, che non si sarebbe mai più rialzato.

Il cuore batteva impazzito per la lunga corsa in salita, ma soprattutto per il dolore che, per tanti, troppi anni represso, ora scoppiava incontenibile; perché proprio adesso, dopo anni di solitudine, delusioni, frustrazioni?

Perché c’è per ogni cosa un momento in cui si raggiunge il carico di rottura e quel momento era arrivato per lui.

Là, in fondo, vedeva il porto da cui non si sarebbe mai staccato dalla folla cittadina il suo Pinkerton al femminile e si mise ad aspettare qualcuno, forse un fantasma, che venisse, finalmente, ad offrire anche a lui un po’ della cosa meravigliosa a cui tutti hanno diritto.

 
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Pubblicato da su ottobre 27, 2011 in Racconti

 

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